Per capirci meglio prendo in prestito la storia di Marco (nome piuttosto diffuso, infatti non è quello reale del paziente), ragazzo 28enne che mi aveva contattato in quanto, da oltre un mese, temeva di sperimentare un ADP in diversi luoghi, specialmente se chiusi, e dunque aveva ridotto di molto le proprie attività quotidiane (per inciso, il timore di trovarsi in situazioni dove potrebbero presentarsi i sintomi dell’ADP o simili, è definita Agorafobia).
Durante il primo colloquio con Marco, come da prassi, ho approfondito il contesto di insorgenza dei sintomi: si trovava con la fidanzata in visita ad un famoso campanile e, durante la salita della stretta e tortuosa scalinata, temette di soffocare e morire, percependo “confusione alla testa”, costrizione al petto ed una totale “perdita di controllo di corpo e pensieri”. Un’altra prassi della PCN è quello di allargare il contesto di vita del paziente relativo al periodo in cui emerge e si mantiene una sintomatologia: Marco stava organizzando il matrimonio con la fidanzata con la quale stava da 7 anni, ma non sembrava sicuro della scelta; inoltre, anche l’ambito lavorativo era piuttosto enigmatico, in quanto si ritrovava ad essere precario presso un’azienda nella quale sentiva di avere poche possibilità di crescita. Tale situazione esistenziale, caratterizzata da senso di costrizione e poco controllo, incideva anche sul suo corpo, rendendolo particolarmente sensibile proprio a questo tipo di variabili (per l’appunto, senso di costrizione e mancanza di controllo). Era quindi stato sufficiente trovarsi in un luogo che stimolasse queste “corde” già tese (il campanile dalla stretta scalinata), affinché il corpo di Marco entrasse in una condizione di allarme. Un altro aspetto necessario affinché il vissuto corporeo si potesse trasformare in sintomo, è stato il racconto che Marco si è fatto di esso: per ovvie ragioni non si raccontò di essere particolarmente sensibile a determinate variabili corporee in uno specifico momento della vita, ma si limitò a spiegarsi l’esperienza con un “sto morendo”, “sto impazzendo”. Questa sorta di “frattura identitaria” sta alla base del circolo vizioso che poi ha portato Marco a chiudersi sempre più ad un mondo spaventoso e incontrollabile, in quanto incomprensibile.
Qual è stato il mio intervento?
Già dopo i primi due colloqui avuti con Marco, volti a farlo appropriare del senso e del contesto del suo malessere, la sintomatologia ansiosa si era notevolmente ridimensionata. In pratica, comprendere che i sintomi non erano qualcosa di inspiegabile e slegato dal proprio agire quotidiano, bensì l’espressione di un suo modo di essere in un determinato periodo di vita, ha consentito al paziente di ridimensionarli e di affrontare con diversa consapevolezza le situazioni che ultimamente stava evitando. I successivi colloqui sono stati dedicati ad affrontare soprattutto i dilemmi esistenziali che avevano portato Marco a percepirsi come fragile ed insicuro: “Sento davvero mia la scelta di sposarmi?” “Come potrei cambiare la mia attuale situazione lavorativa?”. Anche grazie alla compilazione quotidiana del Diario Esperienziale e ad altri “compiti per casa” da me assegnati, nel corso del tempo il ragazzo ha compreso, tramite esperienze personali e non senza fatica, quale fosse la sua strada sia affettiva che lavorativa.
La sintomatologia dell’Attacco di Panico è definitivamente scomparsa dopo circa 8-10 sedute. Complessivamente con Marco ho sostenuto 25 colloqui, all’inizio con cadenza settimanale, poi, una volta migliorata la condizione sia sintomatologia che di vita in generale, bisettimanale.
[Tutti i brani pubblicati sono ispirati a colloqui reali, ma gli interventi contenuti nei dialoghi si riferiscono esclusivamente a situazioni specifiche e non possono in alcun modo sostituire né integrare una diagnosi psicologica, né un colloquio con uno psicologo. Ogni riferimento a luoghi, situazioni e persone è stato rimosso o modificato.]