Per dare risposta a queste domande, riporto l’esempio di Mario, 50enne manager di una grande azienda, che mi aveva contattato perché, da circa un paio di mesi, sperimentava forti sintomi ansiosi ogni volta che si trovava ad utilizzare l’ascensore.
Durante il primo colloquio ho provato a comprendere CHI fosse Mario e cosa lo avesse portato, in quello specifico momento della sua vita, a sviluppare una sintomatologia fobica.
In sintesi, il paziente era separato dalla moglie da circa 10 anni ed aveva 2 figli ormai maturi e indipendenti. Da circa 2 anni aveva una compagna, con la quale non conviveva. Lavorava per una grande azienda praticamente da sempre e, parole sue, “ho dedicato la mia vita a questa azienda ed alla carriera lavorativa”. Da qualche mese aveva iniziato a percepire di venire messo sempre più ai margini da parte dei vertici aziendali, avvertendo frequente senso di costrizione quando si trovava a confrontarsi quotidianamente con colleghi e clienti. Circa un paio di mesi prima del colloquio, in maniera inaspettata, trovandosi nell’ascensore del grattacielo aziendale, aveva sperimentato mancanza d’aria, fiato corto, costrizione al petto e “l’impellente bisogno di uscire da lì”. Da quel momento prendere l’ascensore era diventato un incubo, poiché temeva l’insorgere di quei sintomi; un incubo però difficilmente evitabile, poiché il suo ufficio era al ventesimo piano dell’edificio.
Come generalmente accade, il sintomo non è il motivo del malessere, ma il modo attraverso il quale l’individuo cerca un equilibrio all’interno del malessere stesso: Mario aveva dedicato la vita alla carriera professionale, ed ora, per motivi legati all’età, la sua prospettiva in tal senso era di tipo discendente. Dal punto di vista indentitario si trovava dunque messo in forte scacco, provando quindi un crescente disagio che si manifestava con sintomi di tipo costrittivo. Il paziente, molto provato quindi rispetto alle variabili corporee legate alla costrizione (es. fiato corto, pressione al petto,…), trovandosi in una situazione che potesse ulteriormente sollecitarle (l’ascensore) e non spiegandosi il senso di ciò che gli stava accadendo, aveva percepito una forte mancanza di controllo di sé e del suo corpo. Da quel momento, quindi, il problema (e la Fobia) di Mario era diventato l’ascensore ma, non trattandosi del reale motivo del suo malessere, era una questione non risolvibile e destinata a ripetersi.
Qual è stato il mio intervento?
Durante i primi colloqui, il mio obiettivo era di far afferrare al paziente il senso del proprio malessere, in modo tale che lo percepisse come legato alla sua storia di vita e, quindi, modificabile. Attraverso la prescrizione del diario esperienziale, ho fatto in modo che Mario cogliesse quotidianamente il collegamento tra sensazioni corporee e situazioni sociali.
Il lavoro è poi proseguito su due binari: da un lato, attraverso compiti esperienziali, il paziente ha “affrontato” l’ascensore con una consapevolezza gradualmente diversa, fino ad estinguere la sintomatologia fobico/ansiosa; d’altro canto abbiamo lavorato sul suo riposizionamento, poiché ora la vita gli imponeva di sostenersi anche su altri ruoli diversi da quello lavorativo (ad esempio quello di compagno e genitore). Questo secondo punto ha richiesto, per ovvie ragioni, un tempo di lavoro più lungo rispetto al primo. Ho visto il paziente per circa un anno, prima con cadenza settimanale, e poi bisettimanale. La sintomatologia fobica era notevolmente migliorata già dopo le prime settimane, per poi scomparire circa a metà del percorso.
[Tutti i brani pubblicati sono ispirati a colloqui reali, ma gli interventi contenuti nei dialoghi si riferiscono esclusivamente a situazioni specifiche e non possono in alcun modo sostituire né integrare una diagnosi psicologica, né un colloquio con uno psicologo. Ogni riferimento a luoghi, situazioni e persone è stato rimosso o modificato.]