Articolo scritto dalla dott.ssa Giulia Menditto
Cosa aspettarsi dalla prima seduta con lo Psicoterapeuta
Articolo scritto dal Dr. Mattia Dogana
Cosa posso aspettarmi dalla prima seduta con lo psicoterapeuta?
È possibile che questa domanda ti sia passata per la testa se sei qui o se hai da poco deciso di intraprendere un percorso di psicoterapia. Le motivazioni possono essere molteplici: dalle crisi esistenziali alle vere e proprie manifestazioni di patologie che bloccano il tuo agire, facendoti sentire come dentro a un infinito e turbolento vortice di pensieri, emozioni e azioni che danneggiano il tuo modo di vivere. Ma torniamo alla domanda: come sarà questa prima seduta? La domanda è lecita e ovviamente non esiste una risposta univoca.
Per quanto riguarda il Dottor Giovanni Ventura, psicologo a Verona, ecco a disposizione una breve guida per affrontare al meglio il tuo primo colloquio.
Attraverso la prima seduta con il Dottor Giovanni Ventura, psicologo a Verona, riuscirai a risolvere tutti i problemi che hai affrontato nella tua vita. Capirai te stesso e vivrai una vita appagante.
Ci hai creduto?
Magari la vita fosse così semplice; la psicoterapia ha spesso bisogno di tempo per dare i suoi frutti. Non è mai un bene cercare di affrettare le cose! Troppo spesso, purtroppo, a causa dei media e del pensiero comune, abbiamo interiorizzato l’idea che lo psicologo sia in possesso di qualche superpotere che gli consente magicamente di rendere migliore la vita delle persone.
Non è così!
In un percorso di psicoterapia, la tua partecipazione attiva e la tua presenza sono fondamentali per ottenere risultati significativi. Il Dottor Giovanni Ventura, psicologo con sede a Verona, possiede una formazione approfondita e un’esperienza consolidata di oltre 11 anni e più di 3000 colloqui svolti. La sua competenza e la sua pratica seguono un approccio scientificamente valido e basato su una solida base ontologica. Tuttavia, è importante sottolineare che il terapeuta non ha un superpotere che risolva automaticamente tutti i problemi. È attraverso il tuo impegno, la tua volontà di affrontare le sfide e la tua apertura al cambiamento che si realizzano le vere trasformazioni. Il terapeuta agisce come una guida, un facilitatore e un sostenitore lungo il cammino, ma sei tu il protagonista del tuo percorso di crescita e guarigione. La psicoterapia ti offre l’opportunità di responsabilizzarti e di vivere la tua vita al meglio, affrontando le sfide e imparando a utilizzare il bagaglio di esperienze per il tuo benessere e crescita psicologica.
E se non riesco?
Non preoccuparti, le imprese eroiche richiedono tempo! Quello che è importante fare è non demordere. Dal Dottor Giovanni Ventura, psicologo a Verona, troverai, sia in presenza che online, un clima di ascolto, professionalità e astensione dal giudizio. L’obiettivo del terapeuta sono il tuo benessere e la tua crescita personale. La psicoterapia infatti è un esperienza di tipo clinico relazionale che mira a responsabilizzare e attivarti.
Ma cosa avviene davvero durante la prima seduta?
Ottima domanda, si vede che sei sul pezzo!
Scherzi a parte, da subito verrà effettuato un inquadramento del problema che ti ha spinto a contattare il terapeuta, consentendogli di ottenere una visione più ampia e completa dei motivi alla base del tuo malessere, il fatidico “Cosa ti porta qui?”.
In genere durante la prima seduta avvengono anche le prime rifigurazioni da parte dello pscioterapeuta, ovvero una restituzione al paziente di una lettura più ampia e completa relativa al suo problema o malessere. Tramite questo procedimento ti verrà offerta una nuova prospettiva. Questo ti fornirà una maggiore consapevolezza e ti aprirà la strada verso il cambiamento!
Solitamente durante le prime due sedute inoltre si procederà con la raccolta della tua storia di vita. ATTENZIONE! Questo passaggio non avviene per mera curiosità del terapeuta, ma per permettere ad esso di comprendere al meglio il contesto e gli eventi che hanno influenzato la tua vita. Su questa tematica potrai trovare un articolo di approfondimento a questo link! https://venturapsicologo.it/la-storia-di-vita-in-psicoterapia/
Lungo il corso delle sedute viene spesso incoraggiato l’uso di un diario personale e, con il paziente, si concordano compiti esperienziali da svolgere durante la quotidianità. Questi sono veri e propri strumenti che consentono di aumentare il livello di consapevolezza, permettendo di esplorare emozioni e pensieri che magari precedentemente non si è abituati a cogliere. Anche su questa tematica è presente un articolo che esplora meglio la questione, lo puoi trovare qui!
L’importanza del Diario in Psicoterapia
Ma quindi un percorso di psicoterapia dura molti anni?
Sbagliato! O meglio, la durata di un percorso di psicoterapia può variare a seconda delle tue specifiche esigenze e dei tuoi progressi. In media, potrebbe richiedere dalle 15 alle 20 sedute, anche se è difficile una certa previsione. Il terapeuta valuterà il tuo caso e lavorerà con te per determinare una durata approssimativa che sia adatta alle tue necessità. L’obiettivo è ottenere i migliori risultati possibili, adattando la terapia alle tue esigenze individuali.
Quali sono i motivi per cui ha senso contattare lo psicologo psicoterapeuta?
Ci sono svariati motivi per cui ha senso contattare un professionista; oltre a problematiche legate alla salute mentale, la psicoterapia è utile per affrontare i problemi esistenziali e le sfide poste dalla quotidianità. Ma vediamo nel dettaglio di cosa parliamo:
1. Problemi esistenziali: la psicoterapia può offrire supporto per affrontare questioni profonde e significative legate al senso della vita, alla ricerca di significato, all’identità personale, alla realizzazione personale e alle sfide legate alle tappe di sviluppo.
2. Gestione dello stress: se stai vivendo un periodo di stress intenso, la psicoterapia può aiutarti a sviluppare strategie efficaci per gestire le pressioni quotidiane, le responsabilità e le situazioni di vita difficili.
3. Difficoltà relazionali: la terapia può fornire uno spazio sicuro per esplorare e affrontare problemi di relazione, come conflitti familiari, difficoltà di comunicazione, problemi di coppia o difficoltà nel fare amicizie.
4. Problemi di autostima e fiducia in sé stessi: se stai lottando con una bassa autostima, mancanza di fiducia in te stesso o dubbi sulla tua identità, la psicoterapia può aiutarti a sviluppare un senso più solido di autostima e sicurezza personale.
5. Cambiamenti importanti nella vita: eventi significativi come la perdita di una persona cara, un divorzio, un cambiamento di lavoro o di ambiente possono generare ansia, stress e confusione. La terapia può fornire supporto e orientamento per affrontare e adattarsi a questi cambiamenti.
6. Crescita personale: anche se non hai problemi specifici, la psicoterapia può essere uno strumento prezioso per esplorare te stesso, aumentare la consapevolezza e il benessere emotivo, e sviluppare abilità per migliorare la tua vita in generale.
Ancora non ti ho convinto?
Contatta il Dottor Giovanni Ventura e tu stesso mi potrai dire cosa ne pensi!
LeggiAnsia Sociale
CHE ANSIA!
La parola Ansia è un termine che fa parte del vocabolario di tutti e viene utilizzato quasi quotidianamente per riferirsi alle più disparate esperienze, tanto che possiamo definire quello di ansia un termine abusato.
Per questo motivo, l’ansia come sintomatologia psicologica relativa ad un vero e proprio disturbo è talvolta difficile da scindere con il termine che comunemente viene usato nella vita di tutti i giorni.
A confondere ancor di più le idee è anche il fatto che di disturbi d’ansia ne esistono di diversi tipi, ognuno con le proprie caratteristiche peculiari.
Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) nella sua più recente versione raggruppa all’interno della categoria dei disturbi d’ansia ben 10 patologie differenti:
- Disturbo d’ansia da separazione
- Mutismo selettivo
- Agorafobia
- Ipocondria
- Fobie specifiche
- Disturbo d’ansia generalizzata
- Disturbo di panico
- Fobia sociale
- Disturbo d’ansia indotto da sostanze
- Disturbo d’ansia causato da altre situazioni mediche
In questo articolo ci concentreremo su uno di questi disturbi: l’ansia sociale (o fobia sociale).
- Cos’è l’ansia sociale?
- Quali sono le paure nel disturbo d’ansia sociale?
- Come nasce e si mantiene l’ansia sociale?
- Distinguere l’ansia sociale da altri disturbi
- Ansia sociale e pandemia da Covid-19
- Come si cura l’ansia sociale?
- Consigli pratici
- Cosa faccio se ho l’ansia sociale?
1) COS’E’ L’ANSIA SOCIALE?
Il termine “fobia sociale” (o ansia sociale) è stato usato per la prima volta nel 1966 da due studiosi, Marks e Gelder, che la definivano come una sorta di timore nel compiere alcune attività semplici come mangiare e parlare, in presenza di altri per via di una possibile paura di apparire ridicoli (Pietrini et AL., 2009).
Da quel momento l’ansia sociale è stata al centro di numerosi studi ma solo con la pubblicazione del DSM-III è stato concordato un sistema curato per la diagnosi di questo disturbo.
Oggi, il manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (DSM-5) descrive l’ansia sociale come un disturbo caratterizzato da sensazioni di ansia o paura in merito alle situazioni sociali in cui l’individuo è coinvolto e in cui è possibile il giudizio altrui (American Psychiatric Association, 2013)
Ciò di cui l’individuo è preoccupato è la possibilità di poter agire in modi che le persone attorno a lui giudicheranno in modo negativo, e che quindi potranno concludersi con sensazioni di imbarazzo, umiliazione, offesa o rifiuto. Nonostante l’individuo soffra sinceramente per queste preoccupazioni, le stesse risultano essere indubbiamente sproporzionate rispetto alla situazione sociale e al contesto.
Tuttavia, a causa di queste paure e della grande mole di stress che esse provocano, l’individuo con ansia sociale tende ad evitare le situazioni e le esperienze che potrebbero innescare l’ansia rintanandosi sempre più nella solitudine.
Può capitare ad esempio che chi soffre di ansia sociale rinunci a discutere una relazione che ha preparato con tanto impegno per timore del pubblico, che eviti di intraprendere un lavoro molto affascinante per via della presenza dell’ufficio condiviso con altri colleghi ma anche più banalmente che eviti di uscire il sabato sera per mangiare una pizza con gli amici per via della preannunciata brutta figura che pensa di fare o che rinunci alla conoscenza di un/una possibile partner per il possibile fallimento di sé in un eventuale appuntamento (Pietrini et AL., 2009).
Il circolo che si viene a creare di paura, ansia e evitamento interferisce quindi in modo importante con la normale routine di vita della persona.
2) QUALI SONO LE PAURE NEL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE?
Quando l’individuo si trova a vivere la situazione che teme, solitamente inizia ad avvertire dei sintomi di malessere fisico, come tachicardia, sudorazione, arrossamento del viso, tensione, nausea, crampi allo stomaco, calore, affanno, vertigini e confusione mentale (Wikipedia).
Ma cosa provoca questo tipo di sintomatologia? Di cosa ha paura una persona che soffre di ansia sociale?
Le principali preoccupazioni risultano essere le seguenti:
- Paura di essere valutato in modo negativo
- Preoccupazione di sembrare ansioso, debole, pazzo, noioso, intimidatorio, sporco o sgradevole
- Timore di agire o apparire in un particolare modo o di mostrare sintomatologia relativa all’ansia (come arrossire, tremare, sudare ecc.)
- Possibile preoccupazione di offendere gli altri attraverso la propria sintomatologia o di essere respinti a causa della stessa.
Come possiamo osservare, tutte le precedenti fonti di paura riguardano il possibile giudizio altrui sulla persona e quindi una forte ansia anticipatoria che man mano che il disturbo procede, aumenta fino a diventare anche insostenibile. La paura del giudizio negativo diventa alla fine talmente pervasiva che l’individuo risulta fortemente disgregato da suo ambiente sociale e relazionale.
3) COME NASCE E SI MANTIENE L’ANSIA SOCIALE?
L’esordio del disturbo d’ansia sociale è in media attorno ai 13 anni e può avvenire in seguito ad un particolare episodio di vita stressante o umiliante, oppure svilupparsi lentamente.
In merito alla diffusione del disturbo nella popolazione, dai dati di ricerca la percentuale di persone che ne soffre varia dal 3% al 13%, con una maggiore percentuale che riguarda le donne (Pietrini et al., 2009).
Per quanto riguarda il mantenimento del disturbo d’ansia sociale, invece, uno dei modelli maggiormente riconosciuti è quello di Clark e Wells (Clark e Wells, 1995) che identificano 4 processi cognitivi che stanno alla base del disturbo:
- Eccessiva attenzione e monitoraggio dei propri comportamenti durante le interazioni sociali. Questo porta a sovrastimare i propri sintomi ansiosi.
- Eccessivo rimuginio e ruminazione connessi al tema dell’interazione e della propria performance.
- Sovrastima della quantità di ansia percepita in contesti sociali. In questo modo si alimentano i comportamenti di evitamento associati alle situazioni temute.
- Comportamenti di evitamento dei contesti sociali per minimizzare il rischio di sperimentare ansia e paura. Così facendo le situazioni temute acquisteranno sempre più importanza e verranno percepite come qualcosa di terribile.
Infine, la remissione spontanea dell’ansia sociale è molto bassa e questa patologia possono essere correlate altre importanti problematiche come l’abuso di sostanze, la depressione e un aumentato rischio di condotte suicidarie.
4) DISTINGUERE L’ANSIA SOCIALE DA ALTRI DISTURBI
Una corretta diagnosi è certamente essenziale per poter far fronte tempestivamente e in modo accurato al disturbo; per questo motivo è molto importante poter distinguere le caratteristiche dei diversi disturbi, anche quando i sintomi dell’uno o dell’altro si somigliano.
A questo proposito, di seguito vediamo brevemente le differenze tra l’ansia sociale e sei disturbi che hanno alcune caratteristiche simili.
- Ansia sociale VS agorafobia
Chi soffre di ansia sociale teme il giudizio altrui, non determinati luoghi.
- Ansia sociale VS disturbo di panico
Chi soffre di ansia sociale può sperimentare attacchi di panico, ma sempre e solo in occasione di situazioni sociali dove si teme il giudizio degli altri, gli attacchi di panico non sono quindi inaspettati e improvvisi.
- Ansia sociale VS disturbo d’ansia generalizzata
Nel disturbo d’ansia sociale l’ansia è legata a contesti in cui è possibile il giudizio altrui, non è costante.
- Ansia sociale VS Disturbo depressivo
Per chi soffre di ansia sociale il giudizio altrui temuto è legato a propri comportamenti che potrebbero risultare inadeguati o motivo di scherno. Per chi soffre di depressione il giudizio negativo altrui è considerato come una svalutazione, una mancanza di approvazione.
- Ansia sociale VS disturbo di dismorfismo corporeo
Nell’ansia sociale il timore e la preoccupazione non sono circoscritti alla vergogna relativa al proprio aspetto fisico o un particolare del corpo.
- Ansia sociale VS disturbo evitante di personalità
Nell’ansia sociale gli evitamenti sono meno marcati e meno generalizzati e durano meno tempo. Tuttavia, questi disturbi possono presentarsi congiuntamente.
(American Psychiatric Association, 2013).
5) ANSIA SOCIALE E PANDEMIA DA COVID-19
La pandemia da Covid-19 che ha colpito l’intero pianeta dal 2019 e che, in parte, continua anche oggi, ha sicuramente influito sulla salute mentale di intere generazioni.
In particolare, chi soffriva di ansia sociale prima dell’esordio pandemico, ha sperimentato una situazione maggiormente confortevole durante questo periodo; infatti, specialmente nei periodi più intensi del contagio, l’isolamento imposto e la riduzione dei contatti sociali ha permesso a queste persone di sentirsi giustificate nell’evitare proprio quelle attività che di consuetudine provocano ansia e paura, con una notevole diminuzione anche dello stress percepito (Arad, Shamai-Leshem e Bar-Haim,2021).
La pandemia, quindi, si è in un certo senso posta come un evento facilitante per chi soffriva di ansia sociale, diminuendo i sintomi del disturbo. Tuttavia, adesso, mentre il mondo ricomincia a vivere fuori dalle mura domestiche, i sintomi ritornano e spesso più forti di prima.
In definitiva, la pandemia da Covid-19 altro non è stata che un fattore esacerbante dei sintomi dell’ansia sociale, che ha solo aiutato la malattia a peggiorare.
Per di più, pare che con la pandemia i casi di fobia sociale siano addirittura aumentati. Infatti, anche chi prima dell’avvento pandemico non ha mai mostrato sintomi, poi, a causa delle restrizioni forzate e delle varie paure causate dal Covid-19, ha potuto iniziare a provare i tipici sintomi e timori di chi soffre di un vero e proprio disturbo di ansia sociale (Marsigli, 2022).
6) COME SI CURA L’ANSIA SOCIALE?
Le linee guida attualmente disponibili per la cura dell’ansia sociale consigliano la psicoterapia (specialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale – CBT) ed eventualmente la terapia farmacologica.
La CBT propone una terapia centrata sul momento presente e quindi sul trattamento diretto della sintomatologia. L’obiettivo di questo tipo di psicoterapia è quello da un lato di modificare i pensieri che vengono definiti disfunzionali, e dall’altro di offrire alla persona con ansia sociale delle capacità specifiche per affrontare le situazioni che vengono percepite come ostili e quindi temute (Wells e McMillan, 2004).
I pensieri disfunzionali delle persone che soffrono di ansia sociale circa gli eventi derivano, secondo la psicoterapia cognitivo comportamentale, da schemi cognitivi rigidi che si attivano quando l’individuo ha a che fare con situazioni sociali. La terapia mira a modificare questo tipo di pensieri e, contemporaneamente, offre la costruzione di abilità per gestire in modo più adattivo le situazioni sociali, come l’insegnamento di tecniche di rilassamento, di gestione dell’ansia o per la gestione dell’interazione interpersonale (Polo, 2020).
Dal punto di vista farmacologico, invece, la cura per l’ansia sociale si basa su due tipologie di farmaci: antidepressivi e benzodiazepine.
Tuttavia, l’approccio farmacologico per la cura del disturbo d’ansia sociale non si è dimostrato efficace quanto la psicoterapia. Inoltre, bisogna sempre tenere a mente il rischio di dipendenza e abuso che si possono sviluppare con l’utilizzo di questi farmaci, oltre al fatto che i risultati positivi sui sintomi non sempre si mantengono una volta sospesa la sostanza.
7)CONSIGLI PRATICI
Di seguito verranno proposti alcuni consigli pratici che potrebbero essere d’aiuto per chi soffre di ansia sociale (Polo, 2020):
- Inizia ad esporti gradualmente alle situazioni temute.
Inizia ad accettare gli inviti di amici, qualche uscita fuori porta o una semplice passeggiata sotto casa, infatti, anche se inizialmente potrai percepire l’ansia e non sentirti a tuo agio, con il tempo ti renderai conto che la paura tenderà a diminuire.
- Informati sull’argomento.
Inizia ad essere curioso della tua situazione. Leggi dei libri, degli articoli o cerca dei contenuti multimediali sull’ansia sociale. La consapevolezza di ciò che ti sta succedendo può essere il primo passo per aprirti al cambiamento.
- Evita “scorciatoie”.
Può succedere che chi soffre di fobia sociale inizi ad assumere farmaci ansiolitici in quantità o inizi a bere molti alcolici. Queste sostanze sembrano diminuire i sintomi della persona in contenti sociali. In realtà il consumo di queste sostanze con il tempo altro non farà che aumentare i sintomi del disturbo.
- Impara esercizi di rilassamento.
Imparare tecniche specifiche per rilassarsi, come il rilassamento muscolare progressivo o la respirazione diaframmatica, può aiutarti a ridurre i sintomi dell’ansia, anche nelle situazioni sociali più temute.
- Tieni un diario.
L’esercizio del diario è estremamente utile sia per tenere traccia di quello che senti e vivi nelle varie esperienze, sia per renderti conto dei piccoli e grandi progressi fatti.
8) COSA FACCIO SE HO L’ANSIA SOCIALE?
Nei precedenti paragrafi abbiamo potuto capire cos’è e cosa comporta soffrire di fobia sociale e quanto invalidante essa può essere per vivere una vita che possiamo definire normale.
Se leggendo quanto sopra ti sei sentito preoccupato per te o per qualcuno a cui vuoi bene ciò che puoi fare è cercare un professionista del settore che ti aiuti a capire meglio quello che ti succede o, nel secondo caso, aiutare la persona in questione a cercarlo.
Ricorda che chiedere aiuto è un atto di forza e coraggio, denota una grande presa di consapevolezza ed è il primo passo per vivere la tua vita come davvero desideri.
BIBLIOGRAFIA
American Psychiatric Association (APA) (2013). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina.
Marsigli, A. (2022). Ansia sociale e pandemia: come il COVID ha cambiato la socializzazione. Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva.
Arad, G., Shamai-Leshem, D., & Bar-Haim, Y. (2021). Social Distancing During A COVID-19 Lockdown Contributes to The Maintenance of Social Anxiety: A Natural Experiment. Cognitive Therapy and Research, 45.
Polo, A. (2020). Fobia sociale: come uscirne. Psicoterapiascientifica.
Pietrini, F., Lelli, L., Lo Sauro, C. e Favarelli, C. (2009). Epidemiologia della fobia sociale Epidemiology of social phobia. Rivista di psichiatria, 44.
Clark, D. M., & Wells, A. (1995). Social phobia: Diagnosis, assessment, and treatment (pp. 69–93). New York: The Guilford Press.
Wells, A., McMillan, D., (2004). Psychological treatment of social phobia. Psychiatry, 3.
https://it.wikipedia.org/wiki/Fobia_sociale#Sintomi
Shopping compulsivo online: quando comprare diventa irresistibile
Articolo scritto dalla dott.ssa Linda Fiorini
Lo shopping compulsivo non è un fenomeno nuovo: lo psichiatra Kraepelin già nel 1915 coniò il termine oniomania per indicare l’impulso irresistibile ad acquistare.
Negli ultimi anni la transizione tecnologica e la pandemia hanno determinato uno spostamento verso un luogo di acquisto differente dai negozi fisici: Internet.
Essendo i negozi online sempre disponibili e il pagamento su di essi rapido e semplice, questi luoghi virtuali rappresentano un terreno ideale per i compratori compulsivi.
Ma cosa si intende con Shopping Compulsivo?
Da cosa è causato?
E soprattutto, è possibile controllare il proprio impulso ad acquistare?
Cos’è lo shopping compulsivo?
Con “shopping compulsivo” intendiamo la tendenza della persona a iper-focalizzarsi sul comprare, con acquisti ripetuti e una mancanza di controllo dell’impulso ad effettuarli (Ridgway et al., 2008). La persona dunque continua a effettuare acquisti senza potersi controllare, comprando spesso prodotti che non hanno una reale utilità o valore e che vengono presto dimenticati, buttati, regalati o comunque non utilizzati.
Non è chiaro quanto questo comportamento sia diffuso: alcuni autori (Bighiu et al., 2015) sostengono che la sindrome di acquisto compulsivo sia presente, a livello globale, almeno nel 2% della popolazione; molti autori però sostengono che il fenomeno sia più esteso di ciò che suggeriscono i dati a disposizione (Ridgway et al. , 2008).
Lo shopping compulsivo online
Questo fenomeno già molto diffuso è probabilmente destinato ad aumentare con l’avvento dei negozi online.
Infatti lo shopping, soprattutto dopo la pandemia durante la quale non era permesso andare nei negozi fisici, si è trasferito su un nuovo territorio: Internet.
Le piattaforme di vendita online di abbigliamento, accessori o altri articoli rappresentano dei luoghi non fisici dove l’acquisto viene facilitato da fattori come l’accesso 24 ore su 24 e la semplicità della transazione economica, spesso de-materializzata e molto rapida; l’online può quindi rappresentare un terreno ideale per le persone con tendenze allo shopping compulsivo online (Dittmar et al. 2007).
Alcuni studiosi (Rahman & Hossain, 2022) hanno di recente dimostrato come la qualità dei siti web (caratteristiche come ad esempio la facilità d’uso) abbiano un impatto sui comportamenti di acquisto compulsivo dei clienti, che sono influenzati anche da altri fattori, come la disponibilità di pagamento elettronico sul sito e la propria tendenza agli acquisti impulsivi online.
Acquisto impulsivo e compulsivo
È fondamentale a questo proposito specificare la differenza tra acquisto impulsivo e acquisto compulsivo (Bighiu et al., 2015): il primo viene innescato da uno stimolo esterno, ad esempio come ci può capitare quando, aggiunto un articolo al carrello, il sito ci propone ulteriori prodotti (“le persone hanno acquistato anche”) e noi li aggiungiamo al carrello anche se, di fatto, sarebbero superflui.
Il secondo, invece, viene dall’interno della persona: essa sente un’ansia che vuole placare, oppure si sente triste e vuole risollevare il proprio umore; inoltre, i compratori compulsivi non riescono a resistere alla sensazione positiva che deriva dal comprare, anche se a questa seguono sempre o quasi emozioni negative come senso di colpa, depressione, delusione nei confronti di sé stessi.
Queste due tipologie di acquisti sono separate e indipendenti, anche se possono presentarsi insieme.
Quanto è diffuso lo shopping compulsivo (anche online)?
Le persone che mostrano di mettere più frequentemente in atto lo shopping compulsivo sarebbero, secondo diversi studi, le donne; il comportamento emergerebbe intorno ai 20 anni e successivamente maturerebbe nel corso degli anni.
Secondo alcuni autori, la generazione dei nativi digitali (adesso universitari) sarebbe più prona a mettere in atto questi comportamenti online. Tuttavia, non c’è completo accordo tra gli studiosi né sulla maggiore frequenza del comportamento nelle donne né nei nativi digitali; le ricerche sull’entità del fenomeno sono infatti ancora in corso.
Alcuni studi (Mason et al. 2022) suggeriscono che la generazione Z potrebbe essere più prona allo sviluppo di comportamenti di shopping compulsivo online, e che questo potrebbe essere legato alla dipendenza da smartphone; altri (Sharif & Khanekharab, 2017) hanno invece mostrato una relazione tra il comportamento di shopping compulsivo online e l’utilizzo dei social network.
Conseguenze dello shopping compulsivo (online e offline)
Le conseguenze dello shopping compulsivo online e/o offline, sono prevedibili: le persone spesso spendono più di quello che possono permettersi e finiscono per avere conseguenze economiche importanti, indebitandosi. Questa condizione può anche avere ripercussioni sulla vita privata e lavorativa: una relazione con il/la partner può andare incontro a una rottura a causa di un eccessivo utilizzo delle risorse familiari, ed è possibile che le persone finiscano per perdere il lavoro, soprattutto se l’impulso di fare shopping (in particolare online) emerge durante l’orario di lavoro.
Le persone che mettono in atto shopping compulsivo tendono a spendere moltissimo tempo nell’attività di shopping: questo li priva di occasioni di socializzazione, opportunità di vita e lavorative, e restringe i progetti e l’orizzonte della persona all’attività di acquisto, che rappresenta il pensiero dominante durante la giornata.
Lo shopping compulsivo (online e offline) è una patologia?
DSM-5
Nell’attuale manuale diagnostico per le malattie mentali (DMS-5) non esiste una “sindrome da shopping compulsivo” né online né “offline”, in quanto mancano i dati necessari per definirne i sintomi con precisione.
Tale diagnosi era però presente nel DSM-IV e i sintomi includevano (Dittmar, 2007):
- Un impulso irresistibile a comprare
- Perdita di controllo sul comportamento di acquisto
- Perseverazione nell’acquisto nonostante conseguenze sulla vita personale, sociale o occupazionale e debiti
La tendenza all’acquisto doveva causare significativi problemi nella vita dell’individuo.
Dittmar parla anche di tendenze allo shopping compulsivo, dove l’acquisto incontrollato/eccessivo è presente in qualche grado non patologico ma comunque disfunzionale.
Gli autori hanno proposto diverse classificazioni di questa sindrome: ad esempio Ridgway et al. (2008) riportano un filone che colloca lo shopping compulsivo, insieme ad altre dipendenze comportamentali, in un punto intermedio tra i disturbi di controllo degli impulsi (per l’incapacità di controllare l’impulso a comprare) e disturbi ossessivo-compulsivi (per la focalizzazione costante sull’acquisto).
ICD-11
Nel manuale diagnostico utilizzato in Italia, L’ICD-11, è presente il Disturbo da Acquisto Compulsivo, ma unicamente come esempio di “Altri disturbi del controllo degli impulsi”.
Anche in questo caso gli studiosi sono divisi sulla collocazione del disturbo: alcuni lo inserirebbero tra le dipendenze comportamenti (come il gioco d’azzardo patologico), considerando aspetti come la perdita del controllo, l’importanza della ricompensa/gratificazione dell’attività e la persistenza del comportamento nonostante le conseguenze negative sulla vita dell’individuo. Altri studiosi (Müller et al., 2021) valutano anche la possibilità di distinguere il Disturbo da Acquisto compulsivo offline da quello online, specificando quali dei due il paziente mostra. Tuttavia gli autori stessi osservano come la distinzione offline-online potrebbe non avere molto senso con il progredire della tecnologia, che potrebbe portare ad una generale preferenza per l’online.
Propongono invece che il Disturbo da Acquisto Compulsivo Online possa rappresentare uno specifico disturbo da utilizzo di Internet.
Chi è predisposto allo shopping compulsivo (online)?
Pur non potendo stabilire con certezza delle cause specifiche di questo disturbo, gli studiosi hanno individuato delle caratteristiche di personalità che potrebbero rendere alcune persone più prone a sviluppare comportamenti di shopping compulsivo online (fino a risultare patologici).
In particolare, DeSarbo & Edwards già negli anni ‘90 avevano individuato tra i fattori predisponenti per lo shopping compulsivo aspetti come l’ansia, la depressione, lo stress, il perfezionismo, l’impulsività e la bassa autostima; lo shopping rappresenterebbe in questo caso un modo per alleviare gli stati emotivi negativi o distrarsi, oppure un’azione impulsiva difficile da controllare.
Müller e collaboratori (2021) sottolineano come alcuni studi mostrino che la bassa autostima, insieme a valori materialistici e confusione identitaria, siano fattori di vulnerabilità comuni sia ai disturbi da shopping online che offline.
Per quanto riguarda lo shopping online nello specifico, Zheng et al. nel 2020 hanno confermato che lo stress, soprattutto nelle donne che hanno un meccanismo non efficace per gestirlo, può predire comportamenti di acquisto compulsivo online. Brunelle et al. (2022) hanno confermato che alcuni predittori dello shopping compulsivo online possono essere una certa sensibilità all’ansia e l’impulsività.
Esistono delle basi biologiche allo shopping compulsivo?
Raab e i suoi collaboratori nel 2011 hanno studiato le basi cerebrali dello shopping compulsivo confrontando un gruppo di persone che stava seguendo una psicoterapia per il proprio comportamento di acquisto incontrollato e un gruppo di persone che non aveva questo problema. I risultati hanno mostrato che le persone con comportamento di acquisto compulsivo tendevano ad avere una maggiore attivazione in aree legate al piacere dell’acquisto, e una minore attivazione in quelle legate alla sensibilità al prezzo: in generale, questo è in linea con il comportamento di acquisto incontrollato.
Nonostante questo studio si riferisca a compratori compulsivi non necessariamente online, è molto probabile che le aree cerebrali implicate siano le stesse, dato che il comportamento è avvicinabile per diversi aspetti, in particolare quelli cardine di non riuscire a inibire il comportamento di acquisto e di ricercare il piacere che deriva dal comprare.
Cause psicologiche
I comportamenti di shopping compulsivo (online e offline) potrebbero in parte anche derivare da come la singola persona vive il rapporto con il mondo; le persone che soffrono di depressione, come abbiamo già detto, sono più prone a sviluppare questo disturbo in quanto lo shopping rappresenta un modo per “tamponare” le emozioni negative, e lo stesso può essere detto delle persone che soffrono di ansia, per cui lo shopping può rappresentare un modo per evadere dai pensieri ansiosi. Tuttavia, lo shopping compulsivo online può essere motivato anche dalla ricerca identitaria (Dittmar, 2007): secondo questo autore infatti una delle motivazioni principali per cui le persone svolgono shopping compulsivo è “avvicinarsi a un sé migliore, più ideale”. Questo porta a pensare che le persone con uno stile “tendente all’ossessivo-compulsivo” (secondo l’approccio Cognitivo Neuropsicologico) siano prone allo sviluppo di tali comportamenti, fino ad una possibile patologia.
Stile di personalità tendente all’ossessivo-compulsivo e shopping compulsivo online
Le persone con tendenze ossessivo-compulsive basano la stabilità di sé strutturandola attorno ad un sistema di valori (di qualunque genere, come ad esempio morali, religiosi etc.) a cui cercano di aderire il più possibile, avvicinandosi ad un’immagine “ideale” di sé che, se viene a mancare, può creare una crisi identitaria.
Se la propria identità è fondata su un ideale, gli acquisti di prodotti in linea con l’ideale potrebbero diventare compulsivi, al fine di raggiungere e mantenere costantemente l’immagine ideale di sé. Lo shopping compulsivo online diventerebbe quindi una delle vie di elezione per raggiungere questo obiettivo.
Questo è vero soprattutto se le persone ancorano sé stesse a un sistema di valori esterno legato all’apparire, come ad esempio “devo apparire sempre impeccabile/all’ultima moda” o il materialismo (“ciò che conta nella società è possedere molti beni”).
In questi casi, infatti, è probabile che il comportamento di acquisto diventi molto frequente e compulsivo, data la necessità di continuare ad acquistare oggetti/articoli alla moda per poter vivere all’altezza dell’immagine perfetta del sé che garantisce stabilità.
Questo comportamento non necessariamente sfocia in patologia, ma può comunque avere conseguenze economiche e sociali sulla vita della persona, causando disagio nella sua vita.
Come guarire dallo shopping compulsivo online?
Al momento gli studi sulle terapie per lo shopping compulsivo (online e offline) patologico non sono conclusivi: infatti, il trattamento farmacologico con antidepressivi non sembra significativamente più efficace del placebo, e al momento l’unica terapia che sembra avere un effetto è la psicoterapia, in particolare quella di gruppo (Hague et al. 2016).
In generale, alla luce del fatto che alcune persone con tendenze depressive, ansiose od ossessivo-compulsive possono effettivamente mostrare una maggiore fragilità verso questi comportamenti fino a una cronicizzazione in un disturbo, la psicoterapia risulta essere di base una delle strategie più efficaci.
In particolare, un percorso psicoterapico può aiutare la persona a capire sé stessa, il proprio funzionamento e il ruolo che lo shopping compulsivo ha nella propria vita: è un modo per alleviare lo stress? Serve per sentirsi parte di una comunità online/offline? Ogni persona è diversa dalle altre, e capire ciò che motiva i suoi acquisti incontrollati risulta essere il modo più efficace per trovare una soluzione personalizzata e, in ultima analisi, realmente efficace sul lungo periodo.
Bibliografia:
Bighiu, G., Manolică, A., & Roman, C. T. (2015). Compulsive buying behavior on the internet. Procedia Economics and Finance, 20, 72-79.
Brunelle, C., & Grossman, H. (2022). Predictors of online compulsive buying: The role of personality and mindfulness. Personality and Individual Differences, 185, 111237.
DeSarbo, W. S., & Edwards, E. A. (1996). Typologies of compulsive buying behavior: A constrained clusterwise regression approach. Journal of consumer psychology, 5(3), 231-262.
Dittmar, H., Long, K., & Bond, R. (2007). When a better self is only a button click away: Associations between materialistic values, emotional and identity-related buying motives, and compulsive buying tendency online. Journal of social and clinical psychology, 26(3), 334.
Hague, B., Hall, J., & Kellett, S. (2016). Treatments for compulsive buying: A systematic review of the quality, effectiveness and progression of the outcome evidence. Journal of behavioral addictions, 5(3), 379-394.
Mason, M. C., Zamparo, G., Marini, A., & Ameen, N. (2022). Glued to your phone? Generation Z’s smartphone addiction and online compulsive buying. Computers in Human Behavior, 136, 107404.
Müller, A., Laskowski, N. M., Wegmann, E., Steins-Loeber, S., & Brand, M. (2021). Problematic Online Buying-Shopping: Is it Time to Considering the Concept of an Online Subtype of Compulsive Buying-Shopping Disorder or a Specific Internet-Use Disorder?. Current Addiction Reports, 8(4), 494-499.
Raab, G., Elger, C. E., Neuner, M., & Weber, B. (2011). A neurological study of compulsive buying behaviour. Journal of Consumer Policy, 34(4), 401-413.
Rahman, M. F., & Hossain, M. S. (2022). The impact of website quality on online compulsive buying behavior: evidence from online shopping organizations. South Asian Journal of Marketing, (ahead-of-print).
Ridgway, N. M., Kukar-Kinney, M., & Monroe, K. B. (2008). An expanded conceptualization and a new measure of compulsive buying. Journal of consumer Research, 35(4), 622-639.
Sharif, S. P., & Khanekharab, J. (2017). Identity confusion and materialism mediate the relationship between excessive social network site usage and online compulsive buying. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 20(8), 494-500.
Zheng, Y., Yang, X., Liu, Q., Chu, X., Huang, Q., & Zhou, Z. (2020). Perceived stress and online compulsive buying among women: A moderated mediation model. Computers in Human Behavior, 103, 13-20.
Love Addiction – La Dipendenza Affettiva
Articolo scritto dalla dott.ssa Marianna Guglielmi
Non posso vivere senza di te!
È la frase che ci si aspetta di sentire come epilogo di un film romantico a lieto fine.
Chi non ha mai desiderato ricevere una tale dichiarazione d’amore da parte del/della proprio/a amato/a? Ma siamo sicuri che si tratti di amore?
Una delle caratteristiche fondamentali dell’amore (corrisposto) è quella di migliorare la nostra vita, arricchendola di emozioni e sensazioni positive, derivanti dalla presenza della persona di cui ci siamo innamorat*.
Ma come mai accade anche di non esperire un tale benessere nella relazione, e allo stesso tempo di non riuscire a porvi fine? È possibile scegliere di rimanere in una relazione che ci crea sofferenza perché amiamo troppo il/la nostro/a partner?
Le risposte a questa domanda sono: sì e no. Sì, è possibile, ed è anche piuttosto frequente, rimanere in una relazione che non porta benessere, ma la motivazione non è da ricercarsi nel “troppo amore”. Quando infatti ci ritroviamo in una relazione disfunzionale, ma allo stesso tempo la vita senza il/la nostro/a partner ci sembra inconcepibile, ci ritroviamo in effetti nel vortice della dipendenza affettiva.
La dipendenza affettiva, o love addiction, fa parte delle nuove dipendenze (quelle cioè diverse dalla dipendenza da sostanze). Sebbene non sia ancora entrata nel repertorio delle diagnosi psicologiche, viene comunque considerata in quanto disturbo autonomo, che condivide molte caratteristiche con le altre tipologie di dipendenza, ma possiede anche proprie peculiarità, derivanti dagli aspetti di “innamoramento” e “relazione sentimentale” che sono implicati.
Quali sono quindi i sintomi della dipendenza affettiva? E quali le sue possibili cause? Come capire se sono un/una dipendente affettivo/a? Di seguito faremo una rapida disamina del disturbo e cercheremo di rispondere a queste domande.
Amore e Dipendenza Affettiva
A questo punto molti di voi avranno probabilmente contemplato la possibilità di rientrare nella categoria di dipendente affettivo. Io stessa mi sono posta la questione, e il dubbio è lecito. Chi di noi ha avuto la fortuna di sperimentare l’innamoramento e l’amore infatti, si sarà reso conto di come, insieme a questo sentimento, si sviluppi anche una certa dose di dipendenza dal/dalla partner. Quando siamo innamorati quasi tutti i nostri pensieri sono rivolti alla persona amata, desideriamo averla sempre vicina e soffriamo quando ce ne allontaniamo.
Siamo dunque dei dipendenti affettivi? No.
In amore è naturale/ fisiologico che si attivino tutte queste risposte legate al desiderio e alla ricompensa (euforia, astinenza, tolleranza, dipendenza fisica e psicologica, ricaduta). Non è un caso se spesso l’amore viene definito, più o meno scherzosamente, una droga: le aree cerebrali che vengono stimolate dall’uno e dall’altra sono le stesse (Fisher H.E., Xu X., Aron A., Brown L.L. (2016). Intense, passionate, romantic love: A natural addiction? How the fields that investigate romance and substance abuse can inform each other. Front Psychol 7:687). Questa reazione all’amore è molto importante, poiché favorisce la creazione di un legame saldo, funzionale all’appagamento di diversi bisogni umani, come ad esempio quello di vicinanza affettiva.
A mano a mano che la relazione procederà poi, queste sensazioni si faranno meno totalizzanti, permettendo al nostro “essere innamorati” di fare spazio e coesistere con tutti gli altri aspetti della vita.
Proprio in questo aspetto risiede una delle principali differenze tra amore e dipendenza affettiva: il dipendente affettivo vive in funzione del partner, non vi è spazio per altro nella sua vita e null’altro ha importanza. L’altra fondamentale differenza invece, è relativa al fatto che una relazione d’amore genera benessere, mentre una relazione di dipendenza affettiva comporta sofferenza.
Sintomi e segni
Come ogni dipendente, anche il dipendente affettivo mostra i sintomi e i segni tipici della dipendenza, riadattati all’ambito relazionale. In quest’ottica, il piacere provato dal dipendente affettivo deriva esclusivamente dal/dalla partner, nei confronti del/della quale però sviluppa una sorta di “tolleranza”, che lo porta a desiderare di passare sempre più tempo in sua compagnia, a discapito di altre persone e attività. La lontananza fisica o emotiva dell’amato/a, o la prospettiva di un possibile abbandono, provocano una serie di stati emotivi negativi estremamente intensi, quali ansia, panico e depressione (astinenza).
Per questo il dipendente affettivo vive in funzione dell’evitamento dell’abbandono e della solitudine: dà priorità ai sentimenti del/della partner, nei confronti del/della quale prova senso di colpa e di inferiorità, e di cui è estremamente geloso. Il/la partner è anche la sua sola fonte di autostima. La persona dipendente vive stati alternati di perdita di controllo, durante i quali è incapace di guardare con lucidità alla propria situazione, e momenti di consapevolezza, in cui prova vergogna e rimorso (Fisher H.E., Xu X., Aron A., Brown L.L. (2016). Intense, passionate, romantic love: A natural addiction? How the fields that investigate romance and substance abuse can inform each other. Front Psychol 7:687).
Ma chi è il partner del dipendente affettivo?
Non dobbiamo dimenticare che, per quanto la dipendenza affettiva sia un disturbo del singolo, la sua manifestazione avviene nel contesto della coppia. Per questo può rivelarsi interessante indagare anche “l’altra metà della mela”. Non è raro infatti che nella sua ricerca di protezione, il dipendente affettivo scelga come partner una persona caratterizzata da tatti narcisistici (senso di superiorità, esigenza di ammirazione, mancanza di empatia), poiché in apparenza questa trasmette forza e sicurezza. A sua volta il narcisista è alla ricerca di qualcuno su cui poter esercitare potere e controllo. Viene così a crearsi una relazione disfunzionale, in cui il partner dipendente diventa sempre più sottomesso, e il partner con maggior potere sempre più prevaricante
Cause
La letteratura testimonia l’esistenza di fattori predisponenti alla dipendenza affettiva: la relazione conflittuale tra i genitori, esperienze di abuso infantile (sia fisico che psicologico), l’abbandono, una precoce genitorializzazione del bambino, l’abuso di sostanze, i tradimenti sono tutti possibili fattori di rischio.
D’altra parte, lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro sembra essere un fattore di protezione. Una figura significativa di accudimento che, oltre a rispondere ai bisogni più elementari, sostenga il bambino nella propria esperienza del mondo, veicola sentimenti di disponibilità e accettazione, favorendo così lo sviluppo di una sana autostima e fungendo da deterrente nei confronti della paura della solitudine e dell’abbandono.
È interessante notare che la dipendenza affettiva interessi principalmente le donne. Non vi sono spiegazioni certe in merito a questo disequilibrio; una potrebbe risiedere nei modelli educativi diversi per bambine e bambini. Alle bambine, ad esempio, viene richiesta maggior collaborazione nelle faccende domestiche rispetto ai bambini, e questo potrebbe insegnare loro a mettere i propri bisogni in secondo piano, a favore di quelli degli altri
Cosa fare?
Per prima cosa è necessario capire che se la nostra relazione ci fa soffrire, allora non si tratta di amore. È importante ascoltarci, ascoltare il nostro corpo e le nostre emozioni, senza cercare di soffocarle per paura di non essere in grado di affrontarle. La paura è un’emozione più che lecita, ma non dobbiamo lasciare che ostacoli il nostro percorso verso il benessere. Non dobbiamo avere paura di chiedere aiuto se capiamo di non stare bene ma non sappiamo come muoverci per uscire da questo impasse. Dobbiamo trovare la forza dentro di noi di fare un primo piccolo passo, rivolgendoci ad un professionista, e poi affidarci e lasciarci guidare per il periodo di tempo necessario a ritrovare l’equilibro e tornare a reggerci sulle nostre gambe; consapevoli che ciò non significa “doversela cavare da soli”, ma semplicemente essere artefici, e non spettatori, della nostra vita.
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La paura di fare del male a qualcuno
La paura di fare del male a qualcuno è oggi relativamente frequente, nonché motivo di inizio di un percorso di psicoterapia. Chi la sperimenta prova una sofferenza difficile da comprendere da parte di chi non l’ha mai vissuta, e questo aspetto incide sul senso di disperazione ed estraneità provati dall’individuo.
Ma di quale tipo di disturbo si tratta nello specifico?
Perché una persona può arrivare a vivere questo disagio in un momento di vita?
Come si può intervenire per alleviarlo?
La paura di fare del male a qualcuno: un disturbo ossessivo
Iniziamo con la distinzione tra l’intento di procurare un danno ad un altro individuo ed il forte timore di poterlo fare. Nel primo caso si tratta, per l’appunto, di una volontà, che chi la sperimenta può decidere se attuare o meno; generalmente questo vissuto non provoca ansia, e l’individuo avverte un certo senso di controllo delle proprie azioni. Qualcuno potrebbe obiettare che esistono casi di raptus violenti, durante i quali una persona agisce istintivamente e, successivamente, si può pentire di quanto fatto. E’ vero, ma in questi (per fortuna, rari) casi l’agito non è preceduto da forte ansia all’idea di compiere il misfatto.
La paura di fare del male ad una persona è, invece, un sintomo ossessivo e, in quanto tale, diminuisce drasticamente le probabilità di compiere il temuto agito. E’ caratterizzata da un’importante sensazione di insicurezza personale e dal timore di perdere il controllo di sé e delle proprie azioni. L’individuo che sperimenta pensieri di questo tipo (tecnicamente, pensieri ossessivi) avverte spesso la necessità di “mettere alla prova” se stesso tramite specifici agiti (agiti compulsivi). Ecco quindi che se avvertissi il forte timore di perdere il controllo delle mie azioni e di accoltellare una persona cara, guarderò con circospezione i coltelli da cucina, provando ansia intensa quando mi trovo in quella stanza della casa e, accompagnato da un sentimento di forte timore, proverei ad avvicinarmi all’arma del temuto delitto. Potrei anche, al contrario, sviluppare comportamenti di evitamento nei confronti dei luoghi nei quali sono presenti coltelli: ad esempio, eviterei di mettere piede in cucina, compromettendo non poco le mie azioni ed interazioni quotidiane.
Elenco alcune tra le più frequenti paure al centro di questo tipo di psicopatologia:
- colpire/pugnalare con oggetti contundenti
- spingere una persona sotto un treno, un bus o in un burrone
- molestare o violentare sessualmente persone indifese (specialmente donne o bambini)
- buttarsi dalla finestra (in questo caso l’agito sarebbe contro se stessi)
Come nasce la paura di procurare un danno ad un’altra persona?
Quando trattiamo di vissuti psicologici/esperienziali e sintomi psicopatologici non è ragionevole parlare di cause alla base del loro esordio e sviluppo; è invece opportuno ragionare sull’insieme di motivi che, tra loro intrecciati, possono influire sulle esperienze di un individuo. La digressione sulle differenze tra cause (rigido rapporto causa-effetto) e motivi (dinamiche esistenziali legate alla storia di vita dell’individuo ed al suo modo di fare esperienza; si tratta di un costrutto molto meno rigido rispetto a quello di “causa”) potrà essere tema di un futuro articolo. Per ora mi limito a riportare un dato ricorrente nella pratica clinica: è frequente riscontrare uno specifico evento alla base dell’esordio di una sintomatologia, ad esempio, ossessiva; è altresì vero che tale evento non è praticamente mai sufficiente a spiegare il malessere dell’individuo e, pertanto, non può essere considerato causa.
Nello specifico della paura di fare del male ad un’altra persona, ho riscontrato nella pratica clinica la ricorrenza di alcune caratteristiche individuali e di eventi alla base dello sviluppo e del mantenimento del disturbo:
- ripercorrendo la storia di vita di questi pazienti, emerge la tendenza a dover rispecchiare determinati canoni sociali, a cercare riconoscimento da parte degli altri, a cercare rassicurazioni prima di prendere decisioni. Questa modalità di fare esperienza rende queste persone particolarmente centrate su emozioni quali vergogna, oppure imbarazzo o senso di inadeguatezza;
- il periodo di vita (Macro Contesto Esistenziale) durante il quale emerge la paura ossessiva, è caratterizzato da vissuti di particolare incertezza nei diversi ambiti centrali per l’individuo (es. relazionale, affettivo, lavorativo). Difficilmente il paziente riconosce il “peso emotivo” che questi aspetti esistenziali hanno nel sollecitare e mantenere il forte senso di incertezza: è infatti un’abilità dello Psicoterapeuta quella di porre le giuste domande affinché l’individuo si appropri dell’esperienza in maniera più completa;
- è generalmente presente un evento scatenate: una notizia al telegiornale, una chiacchierata con altre persone, un’informazione letta su libri o sul web. Il pensiero tipicamente conseguente e che diventa un tormento ossessivo è del tipo “se potessi fare io un’azione simile?”. Questo evento è una sorta di goccia che fa traboccare il “vaso dell’incertezza personale”;
- l’individuo, inconsapevole della relativa rilevanza dell’evento scatenante e delle ansie esistenziali alla base del suo senso di incertezza, tende a focalizzare la propria quotidianità sul contenuto dell’evento tramite azioni e pensieri ripetitivi. Così facendo, dà luogo ad un vero e proprio circolo vizioso dal quale non percepisce via d’uscita.
La figura che segue ha il fine di sintetizzare graficamente quanto descritto. Sottolineo che questo tipo di dinamica tende ad essere ricorrente, ma non per forza caratterizza l’esperienza di tutte le persone che sperimentano la paura di procurare un danno ad altri: il bravo Psicoterapeuta è consapevole che ogni storia di vita è diversa dalle altre e che non esistono due individui tra loro uguali!
E’ possibile ELIMINARE la paura di fare del male a qualcuno?
Il titolo del paragrafo è volutamente provocatorio. Per carità, ci sono professionisti che promettono di “guarire” un malessere psicologico tramite un numero limitato di incontri e con l’utilizzo di “tecniche scientifiche”. La mia opinione, basata su anni di studio delle diverse discipline (anche quelle scientifiche) che si occupano dell’essere umano, è che sia alquanto difficile prevedere durata ed esito di una psicoterapia: ricordiamoci, infatti, che un sintomo psicopatologico nasce e si mantiene grazie ad un complesso intreccio di motivazioni legate alla storia di vita ed ai modi di fare esperienza dell’individuo. Questo non significa che, quindi, non si possa intervenire in maniera rigorosa sui disturbi ossessivi; ritengo piuttosto che vada posta particolare attenzione alla definizione di obiettivi realistici e di tempistiche ragionevoli per il loro raggiungimento, nella consapevolezza che le variabili in gioco sono sempre molte e complesse.
Data la doverosa premessa, elenco sinteticamente alcune azioni che caratterizzano il mio intervento psicoterapeutico con i pazienti che presentano una sintomatologia ossessiva:
- analisi del contesto nel quale emerge il sintomo: in questa fase l’obiettivo è quello di far cogliere al paziente quali ambiti di vita sono legati al forte senso di incertezza
- raccolta della storia di vita, al fine di comprendere i modi di fare esperienza del paziente (a questo link trovi un articolo sulla storia di vita in psicoterapia)
- analisi delle situazioni in cui il sintomo è più frequente e delle modalità del paziente di affrontarlo. A tal fine è molto utile l’utilizzo del Diario (a questo link trovi informazioni sull’utilizzo del diario terapeutico)
- spiegazione al paziente di strumenti e tecniche utili per affrontare le situazioni di maggiore ansia e prescrizione di compiti per casa basati, ad esempio, sull’esposizione con prevenzione della risposta, verificatasi essere molto utile per il trattamento di questo tipo di problematica
In alcune circostanze, quando la sintomatologia è particolarmente invasiva e persistente, considero l’invio del paziente ad una consultazione medica, in modo tale che si valuti la possibilità di un temporaneo supporto farmacologico.
Se in questo momento della tua vita stai vivendo una sofferenza simile a quella descritta in questo articolo, non esitare a contattarmi per ricevere informazioni su un percorso di psicoterapia con me o con uno dei miei collaboratori a Verona oppure online.
A questo link trovi i diversi riferimenti per comunicare con me.
Perché è tanto difficile cambiare?
Chi non conosce la sensazione di voler cambiare qualcosa nel proprio modo di essere e di agire, di avere le migliori intenzioni per farlo e, nonostante questo, non riuscire?
Sul web, che si tratti di articoli o di video, ed in numerosi libri sulla crescita personale, vediamo spesso menzionata la famosa “comfort zone“, ovvero quell’area che meglio conosciamo di noi stessi, caratterizzata da abitudini, che quasi sempre tende a guidare il nostro agire: sostanzialmente, tendiamo a riproporre noi stessi, lasciando la guida della nostra esistenza al pilota automatico. Questo accade anche quando, ciclicamente, intendiamo cambiare alcune abitudini e modi di essere: una coazione a ripeterci proprio dura a morire!
Perché accade questo? Perché, ad esempio, se mi dico “voglio interagire di più con le altre persone, non essere sempre il solito silenzioso del gruppo”, poi va sempre a finire che me ne sto zitto in mezzo agli altri, avvertendo un incredibile imbarazzo all’idea di esprimere le mie opinioni o di fare qualche domanda?
L’istinto, intriso di senso comune e di intellettualizzazioni, mi porterebbe a rispondermi che la mia vita ha ben poco di interessante da raccontare, che gli altri sono più in gamba di me, che sono tutto sommato uno sfigato, e altro di questo genere (credo che, in questo momento, gli orecchi di molti miei pazienti stiano fischiando, chissà…).
Facciamo però un salto ad un livello più basso rispetto a ragione e senso comune; quel livello che potremmo definire emotivo e pre-razionale.
Se, ad esempio, durante il corso di vita, in base alle interazioni ed alle esperienze per noi più significative il nostro modo di emozionarci è stato caratterizzato soprattuto da imbarazzo, ansia sociale, vergogna, ecc, è assai probabile che quelle emozioni rappresenteranno sempre più il nostro modo di essere e di riconoscerci. Diventerà, in poche parole, la nostra personalità, il nostro pilota automatico.
Questo implicherà che molte delle nostre esperienze saranno connotate da questi tipi di sfumature emotive e che i nostri pensieri saranno volti a giustificare quel tipo di emotività; racconteremo a noi stessi (e, perché no, anche agli altri) qualunque storia pur di sentirci sfigati, per rimanere in quella versione di noi stessi che conosciamo tanto bene. Sì, perché riconoscerci, sentire che ci siamo, che abbiamo il timone di noi stessi e della nostra vita, è più importante e viscerale di qualsiasi ottimo proposito!
Riassumendo, possiamo quindi dire che la forza principale che guida il nostro agire è di tipo identitario: prima di tutto ho bisogno di avvertire che ci sono, che sono io, con le emozioni ed i vissuti corporei che meglio conosco. Poi, forse, a seconda di molti fattori, posso anche spingermi verso nuovi modi di sentirmi in relazione al mondo.
Non ho mai amato i guru del cambiamento facile, dei piccoli grandi segreti che possono svoltare la vita. Queste righe vogliono anche essere una spiegazione di questo mio scetticismo.
Il cambiamento che, come abbiamo visto, prevede trasformazioni viscerali che vanno ben oltre il senso comune, è generalmente promosso da due ingredienti tutt’altro che immediati: consapevolezza e costanza.
Tenere un diario quotidiano sul quale appuntiamo nostre esperienze, vissuti e realizzazioni (a proposito, QUI parlo di come tenere un diario e dei motivi per cui è importante farlo) è un ottimo punto di partenza per “allenare” entrambe le sopracitate doti promotrici di cambiamento.
A queste, almeno in base alla mia esperienza, ne va aggiunta un’altra, ovvero l’accettazione di noi stessi. Sì, perché se non impariamo ad avere a che fare con i nostri limiti (ed ognuno di noi ne ha moltissimi, qui metto la firma!), rischiamo di agire come il famoso criceto che corre sulla ruota nella speranza di andare lontano ma, allo stesso tempo, con quella velata e poco accettata consapevolezza di chi sa che molto probabilmente rimarrà fermo.
Se in questo momento della vita sei alla ricerca di un cambiamento ma fatichi ad ottenerlo, non esitare a contattarmi per un percorso di psicoterapia a Verona oppure online.
LeggiEssere Se Stessi
“Sii te stesso”, “Non mi sento più me stesso”…quante volte sentiamo ed usiamo queste espressioni?
Ma che vuol dire “essere noi stessi”? Le due accezioni che più spesso acquisisce questa espressione sono “sentirci liberi” oppure “riconoscerci”.
“Sii te stesso durante l’esposizione, vedrai che andrai benissimo”, oppure “da qualche tempo non mi sento più me stesso“.
Queste due accezioni hanno un significato molto differente, quasi opposto: nel primo esempio si esorta una persona a lasciarsi andare, a non dover essere a tutti i costi in un modo, così da favorire la diminuzione dell’ansia da prestazione. Nel secondo esempio, un individuo si avverte diverso da com’è stato fino ad ora. Nel primo caso l’accento è sulla libertà d’azione, nel secondo sul cambiamento.
La domanda che sorge spontanea è: perché l’utilizzo di una stessa espressione per esprimere significati quasi opposti?
La risposta è da cercarsi nella struttura dell’Identità Personale: siamo sempre noi stessi (mi riconosco in una vecchia foto, i miei conoscenti mi riconoscono in quanto me stesso, il mio DNA rimane il medesimo per la vita) e, allo stesso tempo, continuiamo a cambiare (le esperienze forgiano il mio carattere, le rughe cambiano il mio volto, le mie cellule muoiono e nascono continuamente).
Che ci piaccia o no, queste sono due componenti imprescindibili del nostro essere, e saperlo, includere questa consapevolezza in quel racconto più o meno esplicito che facciamo a noi stessi di noi stessi, diventa un valore aggiunto notevole.
Alla luce di queste realizzazioni, ritengo che “essere DAVVERO se stessi” rappresenti quell’ago della bilancia tra ciò che di noi sedimenta nel tempo, tende a permanere, e ciò che muta e può cambiare.
All’atto pratico, quell’ago è dato dalla consapevolezza di chi siamo stati fino ad ora, di quali siano le nostre effettive possibilità nei diversi contesti e, allo stesso tempo, dalla cognizione del fatto che non per forza dobbiamo essere schiavi del nostro passato e dell’immagine che abbiamo dato di noi stessi agli altri.
Quest’ago non può venire fissato una volta per tutte, ma va tenuto costantemente a portata di mano, poiché ci può aiutare a vivere le esperienze per noi più rilevanti con EQUILIBRIO, sapendo che possiamo azzardare fino ad un certo punto, che possiamo risultare un po’ differenti, quando ci va, agli occhi di chi ci conosce; questo azzardo relativo ci permette, sempre quando lo vogliamo, di essere quel “noi stessi” prevedibile per gli altri e comodo per noi.
La storia di vita in psicoterapia
All’inizio di ogni percorso di psicoterapia, sia che esso si svolga presso il mio studio di Verona sia che si tratti di colloqui online, è mia consuetudine affrontare con il paziente la sua storia di vita. Questo processo richiede solitamente tra i 2 ed i 3 incontri.
In preparazione alle sedute è però importante che l’interessato dedichi del tempo alla stesura di uno schematico riassunto nel quale si descrive la propria storia seguendo un ordine cronologico.
Può essere utile seguire il seguente schema:
• quali ricordi ho della mia prima infanzia (età 0-10 anni)? Quali erano le dinamiche familiari? E quelle con i coetanei? Com’ero a scuola? Quali erano i miei hobbies? Ricordo qualche significativo episodio riferito a questo periodo? Quali difficoltà vivevo? E quali punti di forza avevo?
• quali ricordi ho della mia adolescenza (età 11-18 anni)? Quali erano le dinamiche familiari? E quelle con i coetanei? Com’ero a scuola? Quali erano i miei hobbies? Ricordo qualche significativo episodio riferito a questo periodo? Ho vissuto relazioni affettive/sentimentali? Con chi? Come sono andate? Quali difficoltà vivevo? E quali punti di forza avevo?
• quali ricordi ho del periodo universitario e/o dell’approccio al mondo del lavoro? Quali dinamiche vivevo con familiari ed amici? Vivevo relazioni affettive/sentimentali? Come sono andate? Ricordo significativi episodi relativi a questo periodo? Quali difficoltà vivevo? E quali punti di forza avevo?
• Da quel periodo ad oggi cosa è accaduto di significativo nella mia vita? Come si sono evolute le mie relazioni con parenti, amici, lavorative e sentimentali? Quali sono stati gli eventi significativi fino ad oggi? Ho vissuto difficoltà e/o momenti positivi?
Queste molte domande potrebbero far pensare alla stesura di un romanzo autobiografico, ma questo non è necessario. E’ infatti sufficiente che il paziente, seguendo un ordine cronologico, appunti delle parole o frasi chiave relative ai quesiti; queste fungeranno da traccia per il dialogo con me durante le successive sedute.
Perché la storia di vita è importante in un percorso di psicoterapia?
Molto spesso il paziente che intraprende un percorso psicoterapico ha urgenza di risposte, di guardare avanti, di smuovere la propria esistenza. Allora perché la fase iniziale del percorso è dedicata in parte alla raccolta di esperienze di vita passata?
Si potrebbero scrivere interi testi (se ne parla, ad esempio, in questo libro) sull’argomento, ma provo a rispondere al quesito in maniera estremamente sintetica, attraverso due argomentazioni:
• la sofferenza psicologica è spesso conseguente ad una “frattura identitaria”, ovvero al mancato o solo parziale racconto che l’individuo si fa delle proprie significative esperienze. Consiglio la lettura della breve descrizione del caso di Marco (cliccando qui), come esempio. L’approfondimento della storia di vita del paziente, consente allo Psicoterapeuta di rilevare eventuali fratture identitarie alla base di trascorse oppure attuali sofferenze;
• diversi studi neuroscientifici (si vedano, ad esempio, quelli di Daniel Schacter del 2007) ci mostrano come si attivino molte delle medesime aree cerebrali sia per il ricordo di eventi passati, sia per la proiezione di eventi futuri. A livello cerebrale, quindi, passato e futuro di un individuo sarebbero strettamente correlati; è sensato ritenere che la capacità di immaginarci nel futuro sia, almeno in parte, conseguente a quella di raccontarci in maniera sufficientemente lineare il nostro passato.
E’ evidente come i due punti sopra descritti siano tra loro connessi e che entrambi sottolineino l’importanza dell’approfondimento della storia di vita del paziente nell’ambito di un percorso di psicoterapia.
Che altro aggiungere se non “BUONA SCRITTURA”!
Per qualsiasi dubbio o approfondimento su quanto hai appena letto, contattami pure: Giovanni Ventura Psicologo Psicoterapeuta a Verona e online
LeggiL’ Amore ai tempi di Tinder
Lo so, Tinder è solo una tra le tante Dating App, ma è probabilmente la più utilizzata.
“Sembra un supermercato”, “La gente la usa solo per il sesso”, “Non è paragonabile ad un incontro dal vivo”. Questi sono i commenti più frequentemente associati a questo tipo di App e, se così tanto diffusi, un senso lo avranno.
Andiamo però oltre i luoghi comuni, provando a rispondere ad una prima domanda: perché oggi l’utilizzo delle Dating App è tanto diffuso?
Un motivo è senza dubbio lo stile di vita postmoderno che sempre più caratterizza la nostra cultura: ci piace sentirci immersi in una moltitudine di possibilità d’azione, non essere costretti a scegliere, ma liberi attori e registi del nostro destino. Per questo prendono sempre più piede realtà quali Netflix e Spotify, caratterizzate da cataloghi infiniti. Si potrebbe dire che Tinder è il Netflix delle relazioni!
Così come oggi, rispetto ad un decennio addietro, è meno frequente vivere intensamente un film a causa della suddetta moltitudine di possibilità di scelta e delle facili distrazioni durante la visione, diviene altrettanto complicato lasciarsi trasportare emotivamente da una persona da poco conosciuta, ancor più se si tratta di un match tecnologicamente mediato. L’utilizzo di App per trovare l’Amore, tende infatti a rimpinzare di allettanti profili le nostre fauci affamate di emozioni intense, ma anche rapide e, se possibile, indolori. Per quanto attraente, quindi, il mondo di Tinder & C. rischia davvero di essere appannaggio di chi cerca il sesso rapido e le relazioni supermarket.
C’è chi però l’Amore su queste App lo trova, come mai?
Ritengo che, in tal senso, due variabili fondamentali siano la motivazione e la capacità di gestire le proprie possibilità d’azione.
Non è infatti scontato che l’utilizzatore di Dating App sia davvero motivato ad incontrare qualcuno per una frequentazione stabile, anzi, nella maggior parte dei casi non è così. Per carità, va benissimo scrollare continuamente profili se è chiara l’intenzione di incontrare un partner sessuale o, più semplicemente, di far passare il tempo (come se oggi già non esistessero sufficienti modi per farlo!), purché però si sia consapevoli dell’orientamento delle proprie azioni.
Venendo alla seconda variabile, se il proprio fine è quello di incontrare qualcuno per conoscerlo davvero, in vista di una frequentazione, penso sia fondamentale evitare il “binge dating”, ovvero la tendenza a chattare con 25 potenziali “amati” contemporaneamente ed a programmare con alcuni di loro 7 uscite in 5 giorni.
Se davvero vogliamo conoscere qualcuno, dobbiamo darci il tempo e lo spazio mentale per farlo, qualunque sia il canale di contatto. Dopotutto, se c’è un aspetto che mi mette in difficoltà dei menù iper articolati di alcuni ristoranti, è che quando sto assaporando la pietanza che ho scelto non manco mai di chiedermi come sarebbero state le altre.
LeggiSull’amore ed il timore per la solitudine
“Sto con lui/lei perché lo/la amo davvero, oppure perché ho paura di rimanere solo/a?”.
Questa domanda non ha sesso né orientamento sessuale; è una questione che tutti ci siamo posti almeno una volta nella vita, per non parlare della sua ricorrenza durante i percorsi psicoterapeutici.
Ritengo che non esista una risposta netta a tale quesito, poiché il timore della solitudine, presente o prospettata che sia, è un ingrediente dell’innamoramento stesso.
Mi rendo conto che quest’affermazione possa apparire provocatoria; qualcuno potrebbe senz’altro ribadire “amo il mio partner e sto benissimo da solo, come la mettiamo?”.
Ragionando per metafora, il timore della solitudine (che, volgendolo al positivo, potremmo anche chiamare “bisogno di affiliazione sociale“) è da intendersi come un ingrediente del piatto dell’innamoramento: la giusta quantità di ogni componente può portare a realizzare una pietanza squisita, al contrario ne potrebbe uscire, citando un famoso chef, un “mappazzone”.
Appartiene a tutti noi il bisogno di vicinanza affettiva, un’importante leva che ci spinge ad innamorarci e, quindi, (ora togliamo i cuoricini dagli occhi, grazie!) a sopravvalutare qualcuno, a viverlo come speciale rispetto agli altri.
E’ un bisogno che varia a seconda dell’individuo e che può mutare durante il corso della vita.
Ci sono quindi persone che vivono la reale o possibile solitudine come un incubo da tenere lontano a tutti i costi e che si aggrappano ad uno o più partner, facendoli diventare la loro unica ragione di vita.
Ci sono altri che provano una sorta di piacere nell’avvertire quel vuoto relazionale, preferendo la singletudine, arrivando anche a trasformare artisticamente quelle emozioni. Ci sono poi coloro che evitano puntualmente di ascoltarsi, riempiendo le loro giornate di lavoro e/o di esperienze; costoro è facile che saltino da una relazione all’altra, sperimentando molto di rado un senso di equilibrio.
I modi di innamorarci rapportati al timore della solitudine sono pressoché infiniti e, come anticipato, mutevoli durante l’arco di vita.
Tornando alla domanda iniziale, ritengo che, la prossima volta che ci verrà di porcela, potremmo sostituirla con una serie che, forse, prevedono alcune risposte: “Quale peso ha per me, in questo momento vita, il timore della solitudine? Sento che tale peso mi consentirà di vivere una relazione in maniera progettuale, non aggrappandomi all’altro/a? Quanto sono disposto a mettermi in gioco?”.