
Perché è tanto difficile cambiare?
Chi non conosce la sensazione di voler cambiare qualcosa nel proprio modo di essere e di agire, di avere le migliori intenzioni per farlo e, nonostante questo, non riuscire?
Sul web, che si tratti di articoli o di video, ed in numerosi libri sulla crescita personale, vediamo spesso menzionata la famosa “comfort zone“, ovvero quell’area che meglio conosciamo di noi stessi, caratterizzata da abitudini, che quasi sempre tende a guidare il nostro agire: sostanzialmente, tendiamo a riproporre noi stessi, lasciando la guida della nostra esistenza al pilota automatico. Questo accade anche quando, ciclicamente, intendiamo cambiare alcune abitudini e modi di essere: una coazione a ripeterci proprio dura a morire!
Perché accade questo? Perché, ad esempio, se mi dico “voglio interagire di più con le altre persone, non essere sempre il solito silenzioso del gruppo”, poi va sempre a finire che me ne sto zitto in mezzo agli altri, avvertendo un incredibile imbarazzo all’idea di esprimere le mie opinioni o di fare qualche domanda?
L’istinto, intriso di senso comune e di intellettualizzazioni, mi porterebbe a rispondermi che la mia vita ha ben poco di interessante da raccontare, che gli altri sono più in gamba di me, che sono tutto sommato uno sfigato, e altro di questo genere (credo che, in questo momento, gli orecchi di molti miei pazienti stiano fischiando, chissà…).
Facciamo però un salto ad un livello più basso rispetto a ragione e senso comune; quel livello che potremmo definire emotivo e pre-razionale.
Se, ad esempio, durante il corso di vita, in base alle interazioni ed alle esperienze per noi più significative il nostro modo di emozionarci è stato caratterizzato soprattuto da imbarazzo, ansia sociale, vergogna, ecc, è assai probabile che quelle emozioni rappresenteranno sempre più il nostro modo di essere e di riconoscerci. Diventerà, in poche parole, la nostra personalità, il nostro pilota automatico.
Questo implicherà che molte delle nostre esperienze saranno connotate da questi tipi di sfumature emotive e che i nostri pensieri saranno volti a giustificare quel tipo di emotività; racconteremo a noi stessi (e, perché no, anche agli altri) qualunque storia pur di sentirci sfigati, per rimanere in quella versione di noi stessi che conosciamo tanto bene. Sì, perché riconoscerci, sentire che ci siamo, che abbiamo il timone di noi stessi e della nostra vita, è più importante e viscerale di qualsiasi ottimo proposito!
Riassumendo, possiamo quindi dire che la forza principale che guida il nostro agire è di tipo identitario: prima di tutto ho bisogno di avvertire che ci sono, che sono io, con le emozioni ed i vissuti corporei che meglio conosco. Poi, forse, a seconda di molti fattori, posso anche spingermi verso nuovi modi di sentirmi in relazione al mondo.
Non ho mai amato i guru del cambiamento facile, dei piccoli grandi segreti che possono svoltare la vita. Queste righe vogliono anche essere una spiegazione di questo mio scetticismo.
Il cambiamento che, come abbiamo visto, prevede trasformazioni viscerali che vanno ben oltre il senso comune, è generalmente promosso da due ingredienti tutt’altro che immediati: consapevolezza e costanza.
Tenere un diario quotidiano sul quale appuntiamo nostre esperienze, vissuti e realizzazioni (a proposito, QUI parlo di come tenere un diario e dei motivi per cui è importante farlo) è un ottimo punto di partenza per “allenare” entrambe le sopracitate doti promotrici di cambiamento.
A queste, almeno in base alla mia esperienza, ne va aggiunta un’altra, ovvero l’accettazione di noi stessi. Sì, perché se non impariamo ad avere a che fare con i nostri limiti (ed ognuno di noi ne ha moltissimi, qui metto la firma!), rischiamo di agire come il famoso criceto che corre sulla ruota nella speranza di andare lontano ma, allo stesso tempo, con quella velata e poco accettata consapevolezza di chi sa che molto probabilmente rimarrà fermo.

L’ Amore ai tempi di Tinder
Lo so, Tinder è solo una tra le tante Dating App, ma è probabilmente la più utilizzata.
“Sembra un supermercato”, “La gente la usa solo per il sesso”, “Non è paragonabile ad un incontro dal vivo”. Questi sono i commenti più frequentemente associati a questo tipo di App e, se così tanto diffusi, un senso lo avranno.
Andiamo però oltre i luoghi comuni, provando a rispondere ad una prima domanda: perché oggi l’utilizzo delle Dating App è tanto diffuso?
Un motivo è senza dubbio lo stile di vita postmoderno che sempre più caratterizza la nostra cultura: ci piace sentirci immersi in una moltitudine di possibilità d’azione, non essere costretti a scegliere, ma liberi attori e registi del nostro destino. Per questo prendono sempre più piede realtà quali Netflix e Spotify, caratterizzate da cataloghi infiniti. Si potrebbe dire che Tinder è il Netflix delle relazioni!
Così come oggi, rispetto ad un decennio addietro, è meno frequente vivere intensamente un film a causa della suddetta moltitudine di possibilità di scelta e delle facili distrazioni durante la visione, diviene altrettanto complicato lasciarsi trasportare emotivamente da una persona da poco conosciuta, ancor più se si tratta di un match tecnologicamente mediato. L’utilizzo di App per trovare l’Amore, tende infatti a rimpinzare di allettanti profili le nostre fauci affamate di emozioni intense, ma anche rapide e, se possibile, indolori. Per quanto attraente, quindi, il mondo di Tinder & C. rischia davvero di essere appannaggio di chi cerca il sesso rapido e le relazioni supermarket.
C’è chi però l’Amore su queste App lo trova, come mai?
Ritengo che, in tal senso, due variabili fondamentali siano la motivazione e la capacità di gestire le proprie possibilità d’azione.
Non è infatti scontato che l’utilizzatore di Dating App sia davvero motivato ad incontrare qualcuno per una frequentazione stabile, anzi, nella maggior parte dei casi non è così. Per carità, va benissimo scrollare continuamente profili se è chiara l’intenzione di incontrare un partner sessuale o, più semplicemente, di far passare il tempo (come se oggi già non esistessero sufficienti modi per farlo!), purché però si sia consapevoli dell’orientamento delle proprie azioni.
Venendo alla seconda variabile, se il proprio fine è quello di incontrare qualcuno per conoscerlo davvero, in vista di una frequentazione, penso sia fondamentale evitare il “binge dating”, ovvero la tendenza a chattare con 25 potenziali “amati” contemporaneamente ed a programmare con alcuni di loro 7 uscite in 5 giorni.
Se davvero vogliamo conoscere qualcuno, dobbiamo darci il tempo e lo spazio mentale per farlo, qualunque sia il canale di contatto. Dopotutto, se c’è un aspetto che mi mette in difficoltà dei menù iper articolati di alcuni ristoranti, è che quando sto assaporando la pietanza che ho scelto non manco mai di chiedermi come sarebbero state le altre.
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Sull’amore ed il timore per la solitudine
“Sto con lui/lei perché lo/la amo davvero, oppure perché ho paura di rimanere solo/a?”.
Questa domanda non ha sesso né orientamento sessuale; è una questione che tutti ci siamo posti almeno una volta nella vita, per non parlare della sua ricorrenza durante i percorsi psicoterapeutici.
Ritengo che non esista una risposta netta a tale quesito, poiché il timore della solitudine, presente o prospettata che sia, è un ingrediente dell’innamoramento stesso.
Mi rendo conto che quest’affermazione possa apparire provocatoria; qualcuno potrebbe senz’altro ribadire “amo il mio partner e sto benissimo da solo, come la mettiamo?”.
Ragionando per metafora, il timore della solitudine (che, volgendolo al positivo, potremmo anche chiamare “bisogno di affiliazione sociale“) è da intendersi come un ingrediente del piatto dell’innamoramento: la giusta quantità di ogni componente può portare a realizzare una pietanza squisita, al contrario ne potrebbe uscire, citando un famoso chef, un “mappazzone”.
Appartiene a tutti noi il bisogno di vicinanza affettiva, un’importante leva che ci spinge ad innamorarci e, quindi, (ora togliamo i cuoricini dagli occhi, grazie!) a sopravvalutare qualcuno, a viverlo come speciale rispetto agli altri.
E’ un bisogno che varia a seconda dell’individuo e che può mutare durante il corso della vita.
Ci sono quindi persone che vivono la reale o possibile solitudine come un incubo da tenere lontano a tutti i costi e che si aggrappano ad uno o più partner, facendoli diventare la loro unica ragione di vita.
Ci sono altri che provano una sorta di piacere nell’avvertire quel vuoto relazionale, preferendo la singletudine, arrivando anche a trasformare artisticamente quelle emozioni. Ci sono poi coloro che evitano puntualmente di ascoltarsi, riempiendo le loro giornate di lavoro e/o di esperienze; costoro è facile che saltino da una relazione all’altra, sperimentando molto di rado un senso di equilibrio.
I modi di innamorarci rapportati al timore della solitudine sono pressoché infiniti e, come anticipato, mutevoli durante l’arco di vita.
Tornando alla domanda iniziale, ritengo che, la prossima volta che ci verrà di porcela, potremmo sostituirla con una serie che, forse, prevedono alcune risposte: “Quale peso ha per me, in questo momento vita, il timore della solitudine? Sento che tale peso mi consentirà di vivere una relazione in maniera progettuale, non aggrappandomi all’altro/a? Quanto sono disposto a mettermi in gioco?”.

Essere Se Stessi

“Sii te stesso”, “Non mi sento più me stesso”…quante volte sentiamo ed usiamo queste espressioni?
Ma che vuol dire “essere noi stessi”? Le due accezioni che più spesso acquisisce questa espressione sono “sentirci liberi” oppure “riconoscerci”.
“Sii te stesso durante l’esposizione, vedrai che andrai benissimo”, oppure “da qualche tempo non mi sento più me stesso“.
Queste due accezioni hanno un significato molto differente, quasi opposto: nel primo esempio si esorta una persona a lasciarsi andare, a non dover essere a tutti i costi in un modo, così da favorire la diminuzione dell’ansia da prestazione. Nel secondo esempio, un individuo si avverte diverso da com’è stato fino ad ora. Nel primo caso l’accento è sulla libertà d’azione, nel secondo sul cambiamento.
La domanda che sorge spontanea è: perché l’utilizzo di una stessa espressione per esprimere significati quasi opposti?
La risposta è da cercarsi nella struttura dell’Identità Personale: siamo sempre noi stessi (mi riconosco in una vecchia foto, i miei conoscenti mi riconoscono in quanto me stesso, il mio DNA rimane il medesimo per la vita) e, allo stesso tempo, continuiamo a cambiare (le esperienze forgiano il mio carattere, le rughe cambiano il mio volto, le mie cellule muoiono e nascono continuamente).
Che ci piaccia o no, queste sono due componenti imprescindibili del nostro essere, e saperlo, includere questa consapevolezza in quel racconto più o meno esplicito che facciamo a noi stessi di noi stessi, diventa un valore aggiunto notevole.
Alla luce di queste realizzazioni, ritengo che “essere DAVVERO se stessi” rappresenti quell’ago della bilancia tra ciò che di noi sedimenta nel tempo, tende a permanere, e ciò che muta e può cambiare.
All’atto pratico, quell’ago è dato dalla consapevolezza di chi siamo stati fino ad ora, di quali siano le nostre effettive possibilità nei diversi contesti e, allo stesso tempo, dalla cognizione del fatto che non per forza dobbiamo essere schiavi del nostro passato e dell’immagine che abbiamo dato di noi stessi agli altri.
Quest’ago non può venire fissato una volta per tutte, ma va tenuto costantemente a portata di mano, poiché ci può aiutare a vivere le esperienze per noi più rilevanti con EQUILIBRIO, sapendo che possiamo azzardare fino ad un certo punto, che possiamo risultare un po’ differenti, quando ci va, agli occhi di chi ci conosce; questo azzardo relativo ci permette, sempre quando lo vogliamo, di essere quel “noi stessi” prevedibile per gli altri e comodo per noi.

Mi aiuti dottore, ho paura di essere omosessuale!
Al lettore il titolo utilizzato potrà sembrare ironico…ma non lo è! Infatti, pur non nascondendo la mia riconosciuta ironia (non so quanto sia effettivamente riconosciuta, ma mi piace pensare che lo sia), in questo articolo parlerò di un motivo di malessere psicologico oggi piuttosto diffuso: i dubbi ossessivi relativi al proprio orientamento sessuale.
Differenza tra orientamento sessuale ed ossessioni su di esso
La scienza ha ormai reso evidente come l’orientamento sessuale non consegua ad una scelta da parte dell’individuo, ma rappresenti piuttosto una “spinta intrinseca”, strettamente legata al proprio modo di essere.
Per quanto la terra sia ancora oggi popolata da persone ignoranti che non riconoscono questa evidenza, sono ormai alcune decine di anni che l’omosessualità non fa più parte dei disturbi riportati sul DSM (il più diffuso ed utilizzato manuale sui disturbi mentali). Uno dei pionieri nello studio sull’orientamento sessuale fu Alfred Kinsey, che intorno agli anni ’50 del secolo scorso condusse un’articolata ricerca sui costumi sessuali degli Americani. Dal Rapporto Kinsey (a questo link potete trovare qualche informazione in più) emerse, tra il resto, che il nostro orientamento sessuale non è da considerarsi come qualcosa di definito e statico, bensì definito da un continuum ai cui estremi ci sono l’omosessualità e l’eterosessualità. Il nostro orientamento sessuale si posiziona lungo questo continuum, e può anche variare sensibilmente (molto di rado in maniera netta) nel corso di vita. Ci saranno quindi individui nettamente eterosessuali, altri nettamente omosessuali, così come bisessuali; alcuni saranno eterosessuali, ma in maniera meno netta di altri…e così via!
Come detto, l’orientamento sessuale non si decide, ma si avverte. Alcune persone, però, possono sviluppare un disturbo ossessivo su questo tema, che le porta a porsi costantemente domande del tipo “se fossi attratto da persone del mio stesso sesso?”, “se mi eccitassi nel guardare un porno omosessuale?”, “se gli altri scoprissero che io sono gay?”. E’ importante distinguere queste paure ossessive dalla difficoltà nell’esternare il proprio orientamento sessuale: purtroppo ancora troppo spesso capita che una persona omosessuale non si senta libera di esprimere la propria identità, di solito a causa di limiti culturali legati al contesto di appartenenza. In questo caso non si tratta di una problematica ossessiva, anche perché il proprio vissuto sessuale è generalmente piuttosto chiaro, sebbene si fatichi ad esternarlo.
Riassumendo: l’orientamento sessuale è qualcosa di viscerale, che viviamo di pancia, ma talvolta cresciamo in un contesto che non ne favorisce la libera espressione. I dubbi ossessivi riferiti all’orientamento sessuale, invece, sono conseguenti a vissuti di forte insicurezza sociale che può vivere un individuo. Ed è di questi ultimi che tratteremo nel proseguo dell’articolo.
La paura di essere gay
Marino è un ragazzo di 26 anni, di bell’aspetto e lavora come commesso in un negozio di abbigliamento. Quando arriva per la prima volta nel mio studio ha un viso disperato e mi dice: “è da un mese che non riesco a togliermi dalla testa che potrei essere gay. Sto facendo fatica a fare l’amore con la mia ragazza e ad eccitarmi quando guardo un filmato porno. Com’è possibile? Sono sempre stato etero, le donne mi sono sempre piaciute tantissimo!”. Il ragazzo, sebbene di giovane età, ha avuto molte esperienze eterosessuali prima dell’attuale relazione con la fidanzata, che dura da circa un anno e mezzo. Prima d’ora aveva vissuto qualche sporadica defaiance sessuale con le precedenti partner: “ho fatto cilecca qualche volta in passato, per via dell’ansia da prestazione, ma poi le cose si sono sempre sistemate”. “In generale la vita mi è sempre andata bene fino ad un mese fa: ho tanti amici, una famiglia ed una ragazza che mi amano, un lavoro che mi piace. Cosa mi è successo? Perché ora vivo quest’incubo? Fatico anche a dormire a causa di questi dubbi sul sesso”.
Com’è prassi del mio lavoro psicoterapeutico, approfondisco il contesto nel quale le ossessioni di Marino sono insorte: ormai da alcuni mesi il paziente medita di cambiare lavoro, ma teme di rischiare troppo lasciando il “posto fisso”. Incalzando con alcune domande sulla sua relazione affettiva, lui afferma “lei mi ama molto, mi da’ sicurezza. Io però non sono così sicuro di voler restare per sempre con lei, sento che sto perdendo delle opportunità”. Raccogliendo poi la storia di vita di Marino (altra mia prassi lavorativa), emerge come lui sia da sempre un ragazzo molto attento al giudizio dei coetanei: “alle scuole elementari mi deridevano per il mio aspetto fisico, poi sono diventato più figo”, “sono sempre attento a quello che possono dire di me gli amici”.
Insomma, sono bastati pochi colloqui con questo paziente per fare emergere come il suo attuale contesto di vita fosse costellato di paure rispetto a scelte difficili da compiere, e da un senso di insicurezza sociale da sempre presente, ed ora acuito. Com’è tipico del disturbo ossessivo, i pensieri costanti e disturbanti, lungi dal rappresentare l’origine del problema, sono piuttosto un tentativo (evidentemente non funzionale) da parte dell’individuo di dare voce ad una sottostante e non raccontata sofferenza.
Il circolo vizioso ossessivo
La sofferenza che Marino percepisce essere senza via d’uscita, è sintetizzabile con il grafico sottostante:

L’attuale momento di vita che Marino sta attraversando, complici le difficili scelte che il ragazzo avverte di dover compiere e che avranno una ricaduta sulla sua esistenza, gli restituisce un senso di incertezza/instabilità, che va ad amplificare l’insicurezza sociale presente ormai da molto tempo.
Marino non si racconta quali effettivamente siano i motivi del senso di incertezza/instabilità che vive e, per spiegarselo, ricorre a ciò che più storicamente lo mette in scacco: la desiderabilità sociale.
A quel punto sono sufficienti semplici “inneschi” quali, ad esempio, un calo del desiderio erotico nei confronti della ragazza, per entrare in un circolo vizioso fatto di continue preoccupazioni del tipo “se fossi gay, cosa penserebbero di me gli altri?”, “la mia immagine ne verrebbe compromessa”…
Questo racconto non identitario, che sgancia Marino dai reali motivi della sua sofferenza, alimenta la sofferenza stessa e mantiene il circolo vizioso ossessivo alla stregua di un criceto che corre sulla ruota nella gabbia in attesa (suppongo) di un nuovo scenario che non arriverà.
Per approfondire il tema “ossessioni” consiglio questo link e quest’altro del mio sito.
Il ruolo della Psicoterapia per affrontare l’ossessione sull’orientamento sessuale
In quale modo, grazie alla Psicoterapia, ho aiutato Marino ad uscire dal circolo vizioso?
In sintesi, ma senza la pretesa di ridurre la complessità di un percorso psicoterapeutico a poche righe, ho lavorato con il paziente affrontando due fondamentali step:
1- fare in modo che si appropriasse dei reali motivi alla base della sua sofferenza, ripercorrendo assieme a lui la sua storia di vita e soffermandoci sugli episodi più significativi. Grazie a questo processo e, quindi, ad una ampliata consapevolezza di sé, Marino ha avvertito in maniera gradualmente decrescente il bisogno di rispondere alle domande ossessive, sperimentando anche un notevole senso di liberazione dall’ansia;
2- la seconda fase della terapia, che è stata anche la più lunga e trasformativa per il ragazzo, è consistita nell’affrontare (anche attraverso “compiti per casa” esperienziali) in maniera più consapevole le difficili scelte di vita che lo avevano messo in scacco, nonché le situazioni di giudizio sociale di cui in passato si sentiva ostaggio. Questa fase è generalmente quella più faticosa per i pazienti, poiché spesso non è accompagnata dall’urgenza sintomatologica più tipica della prima parte del percorso, e quindi la motivazione al cambiamento dei propri modi di fare esperienza può essere altalenante.
Per i più curiosi, Marino (ovviamente nome di fantasia) durante il percorso svolto con me, ha deciso di chiudere la relazione affettiva di cui non era convinto ed ha cambiato il lavoro, con successive grandi soddisfazioni. Non ha più avuto particolari dubbi sul proprio orientamento sessuale.
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Perché si va (o non si va) dallo Psicologo?
Nonostante (per fortuna) informazioni e contenuti siano accessibili ormai a molti, esistono ancora persone che (purtroppo) ritengono poco utile o, addirittura, stigmatizzante intraprendere un percorso con uno Psicologo per superare alcune difficoltà o per migliorarsi.
Non intendo approfondire in questa sede i motivi per i quali, nonostante una copiosa letteratura scientifica a sostegno dell’efficacia della psicoterapia, ancora molte persone preferiscano mantenere una propria posizione contrastante e supportata, talvolta, da mere esperienze personali.
Mi limito ad esprimere un mio parere, certamente non esaustivo sul tema:
• la Psicoterapia non è una scienza esatta, non porta il paziente a “guarire” da una malattia, bensì a cambiare il proprio modo di fare esperienza, ad uscire da circoli viziosi che, quelli sì, portano anche a patologie. Conditio sine qua non per il successo di una Psicoterapia è la motivazione al cambiamento da parte del paziente, pertanto l’individuo poco motivato a cambiare troverà probabilmente poco utile e parecchio faticoso andare allo studio dello Psicologo, affrontare temi “caldi” della propria esistenza e provare a “prendere in mano” la stessa. Questo individuo liquiderà la faccenda con un “non serve a nulla andare dallo psicologo”;
• l’accesso alle informazioni, se non guidata da persone che sanno “decifrare” le informazioni stesse, è solo parzialmente utile. Il mare di internet è vasto e, in esso, si può trovare tutto ed il contrario di tutto. L’utente poco formato in un determinato ambito, è spesso portato a cercare le spiegazioni più semplici, non le più vere.
Ciò detto, sono sempre di più gli individui che decidono di rivolgersi ad uno Psicologo per superare momenti di impasse della loro vita o per raggiungere obiettivi personali. Di seguito riporto le più frequenti motivazioni per cui i pazienti mi contattano:
- ansia e attacchi di panico. Paura di perdere il controllo di sé, di impazzire, di morire…vissuti accompagnati da manifestazioni fisiche quali tachicardia, fiato corto, senso di stordimento, costrizione al petto. Questi sono i sintomi dell’Attacco di Panico, che sperimentano moltissime persone almeno una volta nella vita. L’Ansia è un fenomeno meno intenso, ma del medesimo colore, e spesso accompagna un individuo per buona parte della vita. Qui trovi una descrizione dei disturbi d’ansia e degli attacchi di panico sul mio sito, mentre qui su un sito esterno al mio, ma che considero un buon riferimento;
- ossessioni. Le più diffuse riguardano l’orientamento sessuale e la sessualità in genere, la paura di fare del male a qualcuno, il timore di fornire un’immagine di sé negativa. Hanno una forte connotazione sociale e, talvolta, sono accompagnate da compulsioni. A questo link trovi una spiegazione più approfondita del disturbo;
- umore depresso. Scarsa voglia di agire, visione negativa del futuro e senso di immodificabilità delle situazioni. Queste sono sensazioni spesso alla base dei disturbi depressivi. Qui puoi trovarne una descrizione più approfondita;
- problemi di coppia. Che oggi la vita di coppia porti con sé frequenti possibilità di crisi, è un dato di fatto. Mi viene molto spesso chiesta consulenza da coppie per superare tradimenti, lunghe fasi di stallo e conflittuali, oppure per capire se è il caso di proseguire o meno la relazione. In questa pagina parlo di questo fenomeno e delle mie possibilità consulenziali, mentre qui propongo tre ingredienti alla base di una relazione di coppia serena;
- problemi sessuali. I più frequenti per cui vengo contattato sono il deficit erettile, l’eiaculazione precoce, la difficoltà a raggiungere l’orgasmo, il dolore e/o la paura della penetrazione. Per questo tipo di disturbi è mia consuetudine collaborare con Andrologi/Urologi e con Ginecologi/Ostetriche, poiché un approccio integrato può favorire il superamento della sintomatologia. Va inoltre considerato che, sempre nell’ottica di ottenere migliori risultati, è preferibile un percorso di coppia, quando possibile, per questo tipo di problematiche. A questa pagina puoi trovare un approfondimento dei disturbi sessuali più frequenti;
- dipendenza affettiva/fine di una relazione. La fine di una relazione è spesso fonte di grande sofferenza e, allo stesso tempo, consente di porsi alcune domande relative al proprio modo di stare in coppia ed alla capacità di rimanere anche soli. Mi capita spesso di affrontare questo tema con i miei pazienti, ed è quasi sempre occasione di crescita e sviluppo personali;
- crescita professionale e personale. Sempre più persone mi contattano per comprendere meglio e migliorare se stesse, sia lavorativamente che nelle vita privata, anche in assenza di particolari sofferenze. Questo dato mostra che la psicologia, oggi, viene vissuta da molti individui come strumento di crescita, grazie al quale migliorare la propria quotidianità ed il rapporto con le altre persone. E, dico la verità, questi tipi di percorsi sono spesso quelli più soddisfacenti sia per me che per i clienti;
- dilemmi esistenziali e relazionali. Non sempre (anzi, oggi meno spesso di un tempo) si chiede consulenza ad uno Psicologo in presenza di sintomi psicopatologici. Vivere in epoca post-moderna, in questa società liquida, per dirla alla Baumann, è complesso e richiede notevoli capacità di adattamento. Oggi è importante saper scegliere, e spesso abbiamo poco tempo per farlo. Disporre di un professionista, una guida che ci aiuti ad orientarci in questo oceano di complessità, è un valore aggiunto importante.
In conclusione, ritengo (ma lo ritiene anche la letteratura scientifica!) che rivolgerci ad uno Psicologo sia un’azione necessaria quando attraversiamo periodi di forte stallo, magari accompagnati da sintomi psicopatologici. Farlo, può rivelarsi molto utile anche in ottica di miglioramento individuale e relazionale. Personalmente, mi sono rivolto in più circostanze a colleghi nei momenti in cui ne sentivo il bisogno e, quasi tutte le consulenze ricevute (il “quasi” è d’obbligo, la perfezione non è di questo mondo) hanno accresciuto la passione per il lavoro che faccio e la consapevolezza di quanto la Psicologia rappresenti un fondamentale strumento di benessere.
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Ho capito, ma quindi cos’è davvero l’Ansia?
Sentiamo spesso parlare di Ansia, termine ormai entrato nel gergo comune e talvolta abusato. Quando qualcuno ce ne parla in maniera più “tecnica”, oppure cerchiamo informazioni nel web, troviamo una lista dei sintomi correlati all’ansia, siano essi più corporei (ad esempio palpitazioni) o psicologici (ad esempio paura di perdere il controllo).
Ma qual’è effettivamente il fenomeno ansioso? Cosa ci porta a sperimentare quegli specifici sintomi?
In questo breve articolo proverò a spiegarlo.
Ansia: un fenomeno diffuso ed eterogeneo
Quello dell’Ansia è un fenomeno assai diffuso; per farsene un’idea invito a leggere questo .pdf di ISTAT risalente ad un paio di anni fa. La pandemia attualmente in corso ha ulteriormente esacerbato il fenomeno e penso di non esagerare nello stimare che oltre il 20% della popolazione soffra o abbia sofferto di sintomi ansiosi.
In questo articolo non mi dilungherò nella descrizione della sintomatologia ansiosa, per conoscere la quale rimando alla lettura di questa pagina del mio sito oppure a quest’altra.
I sintomi ansiosi possono essere più “corporei” o più “mentali” (utilizzo il virgolettato poiché è impropria la distinzione tra i due tipi di sintomi, in quanto non esiste una reale e netta distinzione tra ciò che è corporeo e ciò che è mentale). Rimane il fatto che alcuni individui descrivono l’ansia come “paura di impazzire” o di “perdere il controllo dei propri pensieri”, mentre altri la vivono più come “tachicardia”, “costrizione al petto”, “mancanza di respiro” e via dicendo. Aspetti che accomunano tutte le manifestazioni ansiose sono l’attivazione fisiologica (es. aumento della frequenza cardiaca) e la sensazione di perdere il controllo di sé.
Una tipica manifestazione ansiosa
Una volta constatati quali siano i sintomi che accomunano il fenomeno ansioso, provo a spiegare il motivo per cui l’ansia insorge ed il circolo vizioso che la mantiene. Lo faccio partendo da un esempio clinico.
Mario, 55 enne manager di un’importante azienda multinazionale, si rivolge a me poiché avverte mancanza d’aria e sensazione di perdere il controllo di sé in svariate circostanze, specialmente in quelle nelle quali si sente “intrappolato”. L’esordio di questi sintomi risale a circa un mese prima, mentre si trovava nell’ascensore del palazzo nel quale lavora: “mi sembrava di morire”, “da quel momento devo prendere sempre le scale”, “spesso mi capita di provare quelle sensazioni anche in ufficio o in auto; anche l’altra sera al ristorante sono stato malissimo”. Come mai, di punto in bianco, Mario ha iniziato a sperimentare questi sintomi che, fino a quel momento della vita, non aveva mai vissuto? Cos’è effettivamente quell’esperienza che chiamiamo Ansia?
Per capirlo non dobbiamo focalizzarci sui pensieri di Mario, tanto confusi ed intrappolati in un circolo senza via d’uscita, ma abbiamo bisogno di spostarci nel suo contesto di vita e nella continua interazione tra esso ed il suo corpo.
Facendolo, scopriamo che il paziente è da sempre una persona che si definisce a partire dal successo lavorativo; lavoro per cui ha spesso messo in secondo piano altri aspetti della sua vita. La settimana precedente all’esordio dei sintomi ansiosi, era stato convocato dal’Amministratore Delegato dell’azienda, il quale gli aveva fatto intendere che il suo ruolo sarebbe stato gradualmente sempre più marginale, “così da fare spazio ai più giovani”.
Di primo acchito Mario ha affrontato, a suo dire, “in maniera molto razionale” la comunicazione aziendale: “sapevo che non potevo crescere per sempre, che il lavoro non può essere tutto nella vita”. Rimane il fatto che, da lì a poco, è stato sufficiente trovarsi in un ascensore per avvertire una mancanza d’aria ed una percezione di mancanza di controllo mai sentiti prima. Noi esseri umani siamo molto bravi a raccontare e raccontarci storie: la comunicazione ricevuta dall’AD, ha messo in forte discussione il paziente, facendogli percepire un forte senso di instabilità e di poco controllo di sé.
L’Ansia è un fenomeno socio-corporeo
Dove possiamo collocare il senso di instabilità percepito da Mario? Nella sua mente? Nei suoi pensieri? Per quanto il senso comune ci porti a ritenere questo, noi tutti siamo un corpo immerso in un mondo, dunque ogni nostro vissuto lascia tracce indelebili nel nostro corpo. Lo spiazzamento che ha suscitato nel paziente la comunicazione dell’AD aziendale, lo ha reso particolarmente sensibile alle quelle variabili corporee (es. respiro, costrizione al petto, equilibrio) che, in una condizione di “normalità”, non avrebbe ascoltato e avrebbe date per scontate. L’iper focalizzazione del paziente su queste variabili corporee ed il contingente sganciamento dal reale motivo per cui percepiva tali sensazioni di fragilità/instabilità (ovvero la comunicazione ricevuta), hanno fatto sì che Mario si trovasse in un circolo vizioso corporeo: una costante e paradossale paura delle proprie sensazioni fisiche.

Il circolo vizioso dell’Ansia
Come si evince dallo schema soprastante, il fenomeno dell’Ansia è caratterizzato da un circolo vizioso. Può accadere che, in un determinato momento della vita, ci si possa percepire in grande difficoltà o spaesati di fronte alla vita stessa. Questo vissuto comporta dei cambiamenti a livello di sensazioni e percezioni corporee. Il mancato collegamento narrativo tra le “nuove e sconosciute” percezioni corporee ed i motivi esistenziali che le generano, favorisce l’iper focalizzazione su di esse, come se il loro controllo da parte dell’individuo diventasse l’unico possibile punto di equilibrio (es. “se riesco a controllare il mio respiro, allora non perdo il controllo di me in questa circostanza”). L’esclusione degli eventi di vita dal racconto del proprio malessere e la contingente iper focalizzazione sul proprio corpo come presunta chiave di equilibrio, fanno sì che l’individuo rimanga in costante stato di allerta rispetto alle proprie modificazioni corporee.
Come uscire dal circolo vizioso
Abbiamo visto che il circolo vizioso ansioso è generato da una frattura tra un’esperienza di vita vissuta (es. comunicazione dell’Amministratore Delegato, che impone a Mario un riposizionamento esistenziale) ed il racconto che l’individuo fa a se stesso dei correlati corporei associati all’esperienza (es. la mancanza di fiato in ascensore, conseguente al forte senso di incertezza provata da Mario in questo momento di vita, ma raccontata da lui come conseguenza dello spazio ristretto ed alla impossibilità di vie di fuga percepiti).
L’uscita da questo circolo vizioso, dal mio punto di vista, è vincolato a due aspetti:
1- “rimarginazione” della frattura che l’individuo ha creato tra esperienza vissuta e racconto dei propri sintomi. Nel caso di Mario, quindi, si è rivelato necessario che egli comprendesse il legame tra la sua mancanza d’aria ed il senso di incertezza che stava vivendo in quel momento della vita. Questo gli ha permesso di affrontare gli ascensori e le altre situazioni ansiogene con un differente livello di consapevolezza: “ieri ho trovato la forza di prendere l’ascensore; all’inizio ho avvertito il fiato corto, ma poi mi sono fatto forza ed ho visto che stavo meglio. Dopotutto, il senso di soffocamento e di insicurezza sono legati a motivi di altro genere”. La nuova consapevolezza, inoltre, ha consentito a Mario di affrontare con maggiore presenza a se stesso il difficile risposizionamento esistenziale che lo attendeva;
2- “fronteggiamento” dei sintomi ansiosi. Essendo che fiato corto, tachicardia, senso di stordimento, ecc. non sono manifestazioni di patologia “organica” (es. cardiopatia, malattia polmonare, malattia neurologica, ecc.), tali sintomi non vanno “assecondati”. E’ pertanto auspicabile che il fiato corto non venga affrontato attraverso respiri profondi, bensì regolarizzando il respiro, introducendo poco ossigeno tramite le narici. Allo stesso modo, alla sensazione di stordimento è bene non rispondere sdraiandosi oppure aggrappandosi, bensì provando a normalizzare il proprio passo. E così via per tutte le differenti manifestazioni ansiose.
Questi due aspetti che ritengo necessari per il superamento del circolo vizioso ansioso, non sono da intendersi come successivi, ma si integrano l’uno con l’altro durante un percorso di psicoterapia.
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E’ possibile avere il controllo dei propri pensieri?
Capita molto spesso che un paziente riporti di non riuscire a liberarsi da pensieri sovrastanti, generalmente legati a senso di colpa o di incapacità. Quasi sempre la paura predominante è quella di compromettere la propria immagine rispetto agli altri. Come mai oggi queste “ossessioni” sono tanto frequenti? E’ possibile controllarle, non lasciarsi sopraffare da esse? Se sì, come?
In questo articolo proverò a descrivere il fenomeno, dando priorità alla fruibilità per il lettore e non perdendomi nella descrizione delle innumerevoli ricerche scientifiche sul tema.
Perché oggi le ossessioni sono tanto diffuse?
Innanzitutto invito il lettore poco conoscitore del tema, ad un rapido approfondimento visitando questa pagina del mio sito; ulteriori informazioni sul fenomeno possono essere trovate qui.
Uno dei principali motivi per cui oggi questi pensieri intrusivi sono tanto frequenti è la forte pressione sociale a cui siamo costantemente esposti: “ti devi realizzare” “devi essere felice” “devi essere in forma fisicamente” “non ci si deve accontentare”…insomma, è come se il mondo continuasse a dirci “devi andare bene e, per farlo, puoi far leva solo sulle tue forze”.
Nonostante “il mondo” ci dica questo, poi il dato di fatto è un altro: possiamo essere “sbagliati” (anzi, siamo per natura imperfetti sotto tutti i punti di vista) e, se vogliamo, affidarci agli altri. Nonostante questa rappresenti una concreta possibilità, oggi le persone faticano molto a percepirla come tale, dando quindi via libera al proliferare di senso di inadeguatezza ed ossessioni.
Si possono controllare i pensieri ossessivi?
Mi sento di dare una risposta molto netta: NO.
Non possiamo avere controllo sui nostri pensieri, siano essi piacevoli oppure ossessivi. E’ possibile testare questo dato tramite una semplice prova: chiudi gli occhi e decidi a cosa pensare, focalizzandoti al massimo delle tue capacità sull’immagine su cui intendi soffermarti. Ti renderai conto ben presto che riuscirai a rimanere fermo su quel pensiero solo per poco istanti, poi la mente riprenderà a spaziare verso l’infinito…e oltre.
E’ un po’ come se fosse la “pancia” del momento a guidarci, ad imporci di stare continuamente sul gesto sbagliato compiuto il mese scorso, che ci fa sentire terribilmente in colpa, piuttosto che sulla bella giornata vissuta l’altro giorno, che vorremmo tanto tanto rimembrare per poter essere più sereni.
Sconsiglio, quindi, di provare a controllare i propri pensieri poiché, così facendo, rischiamo di incrementare il nostro senso di inefficacia: dopotutto, sarebbe come provare a controllare il meteo perché non ci piace la pioggia!
E’ la “pancia” a guidarci
Nel paragrafo precedente è emerso un tema che ritengo centrale: è la “pancia”, l’istinto, a dirigere il pensiero.
Semplificando: se sono sereno farò pensieri sereni, se sono agitato ne farò di agitati. Qualcuno potrebbe obiettare: “Non sono d’accordo, a volte sono tranquillo e, d’improvviso, un pensiero negativo mi passa per la testa e rovina la giornata”. Vero, ma a questo ribatto dicendo che, a seconda dei momenti della vita e degli stati d’animo, lo stesso pensiero può farci terrorizzare, sorridere, oppure sentire indifferenti. E’ sempre e comunque il “macro contesto” nel quale facciamo esperienza in uno specifico periodo della vita a farci percepire come sicuri di noi, ansiosi, oppure tristi.
Ma quindi sono utili tutti quei bellissimi video che troviamo nel web, nei quali guru ed esperti (talvolta autoproclamati tali) ci descrivono le 3,5 o 7 strategie definitive per liberarci dalle ossessioni? Vi invito a guardarne quanti ne volete, ed a farmi sapere se vi saranno effettivamente d’aiuto.
Cosa fare, quindi, quando ci sentiamo sopraffatti dai nostri pensieri?
Ammetto che, fino a questo punto dell’articolo, non ho dispensato troppo ottimismo rispetto alla possibilità di potersi liberare dagli attanaglianti pensieri che, in alcune circostanze, possono rendere la vita assai dolorosa.
Escludendo l’utilizzo delle tecniche magiche da YouTube o da best seller in libreria, ritengo che la strada da seguire per un maggiore equilibrio mentale debba, per forza di cose, essere caratterizzata da rigore e fatica.
Rigore, poiché se studiamo la filosofia, la psicologia e le neuroscienze, provando a farle comunicare tra loro, comprendiamo, tra il resto, che non è possibile modificare i nostri pensieri, agendo direttamente su di essi.
Serve fatica per non soccombere ai nostri pensieri: la fatica di fermarci, capire cosa ci ha resi così vulnerabili, accettare i nostri limiti e, fatto questo, correre il rischio di prendere in mano la nostra vita, cambiando ciò che è modificabile ma ci spaventa. A quel punto la nostra “pancia” sarà piuttosto fiera di sé e difficilmente si lascerà sopraffare dal dubbio.
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Perché fatichiamo a vivere nel momento presente?
“Stai nel presente, se guardi troppo avanti proverai ansia”, oppure “Non continuare a pensare al passato, pensa ad ora”. Frasi già sentite, vero?
Ma è davvero possibile stare davvero nel momento presente? E, soprattuto, è utile farlo?
In questo breve articolo spiegherò perché, dal mio punto di vista, è importante riuscire a stare nel momento presente e come mai, spesso, fatichiamo a farlo.
Momento presente tra meditazione ed identità
Non è mia intenzione riportare dati scientifici sui benefici della meditazione e, ancor più nello specifico, della mindfulness: i valori aggiunti portati da questi tipi di pratiche sono oggettivi e, per chi ancora non le avesse mai sperimentate, beh, lo faccia subito!
La meditazione, nelle sue varie forme, consente al praticante (dopo un po’ di esercizio) di stare nel fatidico “momento presente”, con tutti i benefici che ne conseguono.
Esistono anche altri strumenti volti a favorire la presenza a noi stessi, ad esempio il diario (se ti interessa conoscere alcuni consigli su come e perché scrivere un diario, ne ho parlato QUI).
Ciò detto, perché c’è chi fatica più di altri a rimanere concentrato ed a vivere con più fluidità il presente?
Perché alcuni di noi riescono a porsi e perseguire obiettivi con costanza e determinazione, mentre altri (la maggior parte di noi, direi) fatica in questo? Perché spesso non riusciamo a “restare sul pezzo”, pur sapendo che, per farlo, sarebbe sufficiente allontanare lo smartphone in determinati momenti e chiuderci in una stanza?
Premesso che viviamo in un mondo caratterizzato da una moltitudine di possibilità d’azione, quindi siamo più proni alla distrazione rispetto a quanto lo fossero i nostri nonni, questo dato non è però sufficiente per spiegare il fenomeno.
Ritengo, piuttosto, che il problema sia più di carattere identitario: a parte rari momenti (ad esempio, quando meditiamo, oppure quando sentiamo un forte dolore o piacere corporeo), noi non siamo mai davvero nel presente. Siamo piuttosto in quella costante tensione tra memoria e prospettiva, termini utilizzati dal mio prediletto cantautore Niccolò Fabi in questa canzone.
Ancora meglio, se ci sganciamo dalle nostre percezioni corporee, il presente è determinato dall’incontro tra “chi sono stato” e “chi sarò”.
A sostegno di questa tesi, traggo spunto da un’interessante serie di studi compiuti dal neuroscienziato Schacter e dai suoi collaboratori circa una decina di anni fa: sembrerebbe che i processi di simulazione o di immaginazione di eventi futuri dipendano perlopiù dagli stessi processi neurali che sono coinvolti nel ricordo di episodi del proprio passato. Semplificando ulteriormente, si attiverebbero molte delle stesse aree del nostro cervello, sia quando ricordiamo un evento passato, sia quando ne immaginiamo uno futuro.
Presente come tensione tra passato e futuro
Un’interpretazione del dato sopra descritto è che, per riuscire ad immaginarci nel futuro, sia importante avere una sufficiente chiarezza del nostro passato, che la “trama” di noi stessi sia lineare e contenga il minor numero possibile di contraddizioni, di “vuoti narrativi”. Allo stesso tempo, quando fatichiamo a vederci nel futuro ed a capire quale sia la nostra strada, il nostro prossimo passo da compiere, tendiamo istintivamente a tornare nel passato con la memoria, come se implicitamente sentissimo di dover sistemare qualcosa indietro per poter andare avanti.
Alla luce di questo, la mia idea è che un sostanziale motivo per cui spesso fatichiamo a concentrarci ed a guardare con chiarezza al nostro futuro, sia dato dalla necessità di fermarci per sintonizzarci con il nostro passato, per integrarlo nella nostra trama con più esaustive letture della nostra esperienza.
Per questo motivo ritengo che la lettura di testi sulla crescita personale, per quanto stimolanti possano essere, raramente sia sufficiente per superare momenti di impasse nella nostra vita. Quando ci sentiamo fermi e fatichiamo a stare nel “momento presente”, ostinarci a guardare avanti può risultare controproducente e può restituirci un senso di inefficacia, portandoci quindi ad una inerzia non scelta.
Ritengo che, in questi momenti, sia importante trovare il coraggio di guardarci indietro, magari con l’aiuto di un professionista dotato degli strumenti utili a facilitare questo processo.
Non ho utilizzato casualmente il termine “coraggio”: penso che, nel contesto in cui viviamo, quello di fermarsi consapevolmente sia un gesto quasi eroico.
Che altro dire, buon PRESENTE a tutti!

Disturbo ossessivo compulsivo, la fenomenologia
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un disturbo riconducibile alla presenza di compulsioni e/o ossessioni. Conosciuto anche con l’acronimo DOC, può presentarsi in qualsiasi momento della vita, ma trova la sua incidenza massima nella fascia di età compresa tra i 15 e i 25 anni. Parliamo di un disturbo più frequente di quanto si pensi, dal momento che nella sola Italia sono circa 800.000 le persone ad esserne colpite. In questo articolo approfondiremo la tematica, prendendo in considerazione anche i sintomi e le cause del Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Disturbo Ossessivo Compulsivo: cos’è
Abbiamo detto che il Disturbo Ossessivo Compulsivo può presentarsi in qualsiasi momento della vita, e che colpisce circa il 2,5% della popolazione, anche se alcune stime riportano dati più gravi, anche oltre il 3%. Il DOC si cronicizza, nonostante le fasi di miglioramento e peggioramento si alternino, ma in alcune situazioni può aggravarsi notevolmente fino a compromettere molti aspetti della quotidianità. In qualche sporadico caso invece è solamente episodico, quindi con una scomparsa completa dei sintomi. Il soggetto colpito da DOC si sente obbligato a pensare o agire nel modo sintomatico, e per queste ragioni cerca di resistere e contrapporsi.
Questo però non significa che questo atteggiamento possa aiutarlo a modificare il suo comportamento. Il maggior sintomo del Disturbo Ossessivo Compulsivo è la presenza di compulsioni e ossessioni, oppure sole ossessioni, per un arco temporale anche piuttosto significativo della giornata. Inutile sottolineare come ossessioni e compulsioni interferiscano nelle attività quotidiane, come lo studio, il lavoro, la vita di coppia, la vita domestica, la cura dell’igiene, o altre. In altre parole, la presenza di questi sintomi comporta una sofferenza marcata per il soggetto, e ne compromette la qualità di vita.
Caratteristiche del Disturbo Ossessivo Compulsivo
A determinare un Disturbo Ossessivo Compulsivo troviamo alcune caratteristiche centrali, tra cui la ripetitività, la frequenza e la permanenza delle attività ossessive. Questo significa che i pensieri intrusivi tornano ripetutamente alla mente, permanendo in maniera duratura e continua. Anche la sensazione che queste attività siano in qualche modo imposte rientra sempre tra le caratteristiche principali. Ma cosa sono le ossessioni? Parliamo di pensieri, idee, immagini o impulsi che nascono all’improvviso, e che dal soggetto vengono percepiti come:
• Intrusivi: La persona nutre la sensazione che questi pensieri nascano da soli, o che comunque non siano legati al flusso di pensieri precedente.
• Fastidiosi: Il soggetto sperimenta un certo disagio, sia per la tipologia di pensieri, che per la loro frequenza.
• Privi di senso: Il soggetto è convinto che questi pensieri siano del tutto irrazionali, non giustificati, o comunque esagerati rispetto alla realtà vissuta in quel momento.
Le compulsioni invece, sono azioni e comportamenti di risposta alle ossessioni, e per il soggetto non rappresentano altro che un tentativo di soluzione. Solitamente le compulsioni sono seguite da un sollievo, seppur solamente temporaneo, dal disagio avvertito.
Disturbo Ossessivo Compulsivo: psicopatologie correlate
Strettamente correlate al DOC, possiamo trovare anche altre psicopatologie. Ad oggi le più diffuse sono:
• Tricotillomania. Il disturbo induce il soggetto a strapparsi peli o capelli e tenterà inutilmente di ridurre il comportamento. Inevitabilmente l’individuo arriverà alla perdita di tali capelli o peli.
• Disturbo da Accumulo. In questo caso il soggetto mostra evidenti difficoltà nel separarsi dei propri oggetti, e questo a prescindere che si tratti di beni di valore o meno. Questa condizione porta ad un congestionamento degli spazi vitali, compromettendone la destinazione d’uso prevista.
• Dismorfismo corporeo. Il soggetto si preoccupa in maniera patologica di alcuni difetti del proprio aspetto fisico, ingigantendone la portata. Molto spesso infatti, tali difetti non sono nemmeno individuabili da altre persone, oppure sono appena visibili. In questo caso la condizione sfocia nel continuo guardarsi allo specchio dell’individuo, che si paragonerà frequentemente ad altri.
Reagire e affrontare le ossessioni non è certamente semplice. In realtà non è il sintomo in sé a rappresentare il problema, perché per il soggetto questo rappresenta il “modo migliore” per affrontare un periodo di vita che gli crea difficoltà. Per questa ragione, non sono certamente sufficienti la razionalità e il buon senso per uscire da dinamiche di questo tipo. La soluzione consiste nel comprendere quale sia il fattore che ha scatenato il sintomo, per affrontarlo in maniera graduale.
Cause, cura e trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo
Così come per molti altri disturbi psichiatrici, anche per il Disturbo Ossessivo Compulsivo non esiste una letteratura sufficientemente completa e condivisa su quelle che sono le cause del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Per fornire una spiegazione si fa quindi ricorso alla sfera bio-psico-sociale. Ad ogni modo, determinate caratteristiche educative, e alcune esperienze, contribuiscono fortemente alla nascita del DOC. Anche una rigidità morale molto forte può rappresentare il fattore scatenante.
Molto spesso un’educazione eccessivamente rigida infatti, che pone la sua attenzione sulle regole e sulle punizioni sproporzionate in caso non vengano rispettate, è uno di quegli elementi che molto spesso vengono individuati nei soggetti che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo. Parliamo dunque di aspetti educativi in grado di favorire una responsabilità esagerata ed una marcata sensibilità al senso di colpa. Proprio per queste ragioni, la psicoterapia approccia il problema in due fasi differenti.
Nella prima vengono fornite al soggetto delle strategie che possano rendere più tollerabili dall’individuo i sintomi ossessivi. La seconda fase prevede invece un’indagine sulla storia di vita del soggetto, per comprendere quali siano i fattori che hanno favorito la nascita dei sintomi ossessivi: fattori che spesso il paziente fatica a raccontarsi e/o ad affrontare. Chiaramente questa seconda fase è più lunga e impegnativa per il paziente.
Disturbo Ossessivo Compulsivo: considerazioni finali
Le tipologie di DOC sono molteplici. Tra le principali troviamo quella da controllo, da contaminazione, da ordine e simmetria, da superstizione eccessiva, e molte altre ancora. A prescindere dal tipo però, tutte queste condizioni come detto possono risultare decisamente invalidanti per il soggetto. In questo frangente la psicoterapia è sicuramente il trattamento più adeguato. Ovviamente le sedute in studio rappresentano la soluzione migliore, ma in caso di necessità e particolari esigenze, anche un videoconsulto corrisponde ad una valida alternativa.