Love Addiction – La Dipendenza Affettiva
Non posso vivere senza di te!
È la frase che ci si aspetta di sentire come epilogo di un film romantico a lieto fine.
Chi non ha mai desiderato ricevere una tale dichiarazione d’amore da parte del/della proprio/a amato/a? Ma siamo sicuri che si tratti di amore?
Una delle caratteristiche fondamentali dell’amore (corrisposto) è quella di migliorare la nostra vita, arricchendola di emozioni e sensazioni positive, derivanti dalla presenza della persona di cui ci siamo innamorat*.
Ma come mai accade anche di non esperire un tale benessere nella relazione, e allo stesso tempo di non riuscire a porvi fine? È possibile scegliere di rimanere in una relazione che ci crea sofferenza perché amiamo troppo il/la nostro/a partner?
Le risposte a questa domanda sono: sì e no. Sì, è possibile, ed è anche piuttosto frequente, rimanere in una relazione che non porta benessere, ma la motivazione non è da ricercarsi nel “troppo amore”. Quando infatti ci ritroviamo in una relazione disfunzionale, ma allo stesso tempo la vita senza il/la nostro/a partner ci sembra inconcepibile, ci ritroviamo in effetti nel vortice della dipendenza affettiva.
La dipendenza affettiva, o love addiction, fa parte delle nuove dipendenze (quelle cioè diverse dalla dipendenza da sostanze). Sebbene non sia ancora entrata nel repertorio delle diagnosi psicologiche, viene comunque considerata in quanto disturbo autonomo, che condivide molte caratteristiche con le altre tipologie di dipendenza, ma possiede anche proprie peculiarità, derivanti dagli aspetti di “innamoramento” e “relazione sentimentale” che sono implicati.
Quali sono quindi i sintomi della dipendenza affettiva? E quali le sue possibili cause? Come capire se sono un/una dipendente affettivo/a? Di seguito faremo una rapida disamina del disturbo e cercheremo di rispondere a queste domande.
Amore e Dipendenza Affettiva
A questo punto molti di voi avranno probabilmente contemplato la possibilità di rientrare nella categoria di dipendente affettivo. Io stessa mi sono posta la questione, e il dubbio è lecito. Chi di noi ha avuto la fortuna di sperimentare l’innamoramento e l’amore infatti, si sarà reso conto di come, insieme a questo sentimento, si sviluppi anche una certa dose di dipendenza dal/dalla partner. Quando siamo innamorati quasi tutti i nostri pensieri sono rivolti alla persona amata, desideriamo averla sempre vicina e soffriamo quando ce ne allontaniamo.
Siamo dunque dei dipendenti affettivi? No.
In amore è naturale/ fisiologico che si attivino tutte queste risposte legate al desiderio e alla ricompensa (euforia, astinenza, tolleranza, dipendenza fisica e psicologica, ricaduta). Non è un caso se spesso l’amore viene definito, più o meno scherzosamente, una droga: le aree cerebrali che vengono stimolate dall’uno e dall’altra sono le stesse (Fisher H.E., Xu X., Aron A., Brown L.L. (2016). Intense, passionate, romantic love: A natural addiction? How the fields that investigate romance and substance abuse can inform each other. Front Psychol 7:687). Questa reazione all’amore è molto importante, poiché favorisce la creazione di un legame saldo, funzionale all’appagamento di diversi bisogni umani, come ad esempio quello di vicinanza affettiva.
A mano a mano che la relazione procederà poi, queste sensazioni si faranno meno totalizzanti, permettendo al nostro “essere innamorati” di fare spazio e coesistere con tutti gli altri aspetti della vita.
Proprio in questo aspetto risiede una delle principali differenze tra amore e dipendenza affettiva: il dipendente affettivo vive in funzione del partner, non vi è spazio per altro nella sua vita e null’altro ha importanza. L’altra fondamentale differenza invece, è relativa al fatto che una relazione d’amore genera benessere, mentre una relazione di dipendenza affettiva comporta sofferenza.
Sintomi e segni
Come ogni dipendente, anche il dipendente affettivo mostra i sintomi e i segni tipici della dipendenza, riadattati all’ambito relazionale. In quest’ottica, il piacere provato dal dipendente affettivo deriva esclusivamente dal/dalla partner, nei confronti del/della quale però sviluppa una sorta di “tolleranza”, che lo porta a desiderare di passare sempre più tempo in sua compagnia, a discapito di altre persone e attività. La lontananza fisica o emotiva dell’amato/a, o la prospettiva di un possibile abbandono, provocano una serie di stati emotivi negativi estremamente intensi, quali ansia, panico e depressione (astinenza).
Per questo il dipendente affettivo vive in funzione dell’evitamento dell’abbandono e della solitudine: dà priorità ai sentimenti del/della partner, nei confronti del/della quale prova senso di colpa e di inferiorità, e di cui è estremamente geloso. Il/la partner è anche la sua sola fonte di autostima. La persona dipendente vive stati alternati di perdita di controllo, durante i quali è incapace di guardare con lucidità alla propria situazione, e momenti di consapevolezza, in cui prova vergogna e rimorso (Fisher H.E., Xu X., Aron A., Brown L.L. (2016). Intense, passionate, romantic love: A natural addiction? How the fields that investigate romance and substance abuse can inform each other. Front Psychol 7:687).
Ma chi è il partner del dipendente affettivo?
Non dobbiamo dimenticare che, per quanto la dipendenza affettiva sia un disturbo del singolo, la sua manifestazione avviene nel contesto della coppia. Per questo può rivelarsi interessante indagare anche “l’altra metà della mela”. Non è raro infatti che nella sua ricerca di protezione, il dipendente affettivo scelga come partner una persona caratterizzata da tatti narcisistici (senso di superiorità, esigenza di ammirazione, mancanza di empatia), poiché in apparenza questa trasmette forza e sicurezza. A sua volta il narcisista è alla ricerca di qualcuno su cui poter esercitare potere e controllo. Viene così a crearsi una relazione disfunzionale, in cui il partner dipendente diventa sempre più sottomesso, e il partner con maggior potere sempre più prevaricante
Cause
La letteratura testimonia l’esistenza di fattori predisponenti alla dipendenza affettiva: la relazione conflittuale tra i genitori, esperienze di abuso infantile (sia fisico che psicologico), l’abbandono, una precoce genitorializzazione del bambino, l’abuso di sostanze, i tradimenti sono tutti possibili fattori di rischio.
D’altra parte, lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro sembra essere un fattore di protezione. Una figura significativa di accudimento che, oltre a rispondere ai bisogni più elementari, sostenga il bambino nella propria esperienza del mondo, veicola sentimenti di disponibilità e accettazione, favorendo così lo sviluppo di una sana autostima e fungendo da deterrente nei confronti della paura della solitudine e dell’abbandono.
È interessante notare che la dipendenza affettiva interessi principalmente le donne. Non vi sono spiegazioni certe in merito a questo disequilibrio; una potrebbe risiedere nei modelli educativi diversi per bambine e bambini. Alle bambine, ad esempio, viene richiesta maggior collaborazione nelle faccende domestiche rispetto ai bambini, e questo potrebbe insegnare loro a mettere i propri bisogni in secondo piano, a favore di quelli degli altri
Cosa fare?
Per prima cosa è necessario capire che se la nostra relazione ci fa soffrire, allora non si tratta di amore. È importante ascoltarci, ascoltare il nostro corpo e le nostre emozioni, senza cercare di soffocarle per paura di non essere in grado di affrontarle. La paura è un’emozione più che lecita, ma non dobbiamo lasciare che ostacoli il nostro percorso verso il benessere. Non dobbiamo avere paura di chiedere aiuto se capiamo di non stare bene ma non sappiamo come muoverci per uscire da questo impasse. Dobbiamo trovare la forza dentro di noi di fare un primo piccolo passo, rivolgendoci ad un professionista, e poi affidarci e lasciarci guidare per il periodo di tempo necessario a ritrovare l’equilibro e tornare a reggerci sulle nostre gambe; consapevoli che ciò non significa “doversela cavare da soli”, ma semplicemente essere artefici, e non spettatori, della nostra vita.
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Sull’amore ed il timore per la solitudine
“Sto con lui/lei perché lo/la amo davvero, oppure perché ho paura di rimanere solo/a?”.
Questa domanda non ha sesso né orientamento sessuale; è una questione che tutti ci siamo posti almeno una volta nella vita, per non parlare della sua ricorrenza durante i percorsi psicoterapeutici.
Ritengo che non esista una risposta netta a tale quesito, poiché il timore della solitudine, presente o prospettata che sia, è un ingrediente dell’innamoramento stesso.
Mi rendo conto che quest’affermazione possa apparire provocatoria; qualcuno potrebbe senz’altro ribadire “amo il mio partner e sto benissimo da solo, come la mettiamo?”.
Ragionando per metafora, il timore della solitudine (che, volgendolo al positivo, potremmo anche chiamare “bisogno di affiliazione sociale“) è da intendersi come un ingrediente del piatto dell’innamoramento: la giusta quantità di ogni componente può portare a realizzare una pietanza squisita, al contrario ne potrebbe uscire, citando un famoso chef, un “mappazzone”.
Appartiene a tutti noi il bisogno di vicinanza affettiva, un’importante leva che ci spinge ad innamorarci e, quindi, (ora togliamo i cuoricini dagli occhi, grazie!) a sopravvalutare qualcuno, a viverlo come speciale rispetto agli altri.
E’ un bisogno che varia a seconda dell’individuo e che può mutare durante il corso della vita.
Ci sono quindi persone che vivono la reale o possibile solitudine come un incubo da tenere lontano a tutti i costi e che si aggrappano ad uno o più partner, facendoli diventare la loro unica ragione di vita.
Ci sono altri che provano una sorta di piacere nell’avvertire quel vuoto relazionale, preferendo la singletudine, arrivando anche a trasformare artisticamente quelle emozioni. Ci sono poi coloro che evitano puntualmente di ascoltarsi, riempiendo le loro giornate di lavoro e/o di esperienze; costoro è facile che saltino da una relazione all’altra, sperimentando molto di rado un senso di equilibrio.
I modi di innamorarci rapportati al timore della solitudine sono pressoché infiniti e, come anticipato, mutevoli durante l’arco di vita.
Tornando alla domanda iniziale, ritengo che, la prossima volta che ci verrà di porcela, potremmo sostituirla con una serie che, forse, prevedono alcune risposte: “Quale peso ha per me, in questo momento vita, il timore della solitudine? Sento che tale peso mi consentirà di vivere una relazione in maniera progettuale, non aggrappandomi all’altro/a? Quanto sono disposto a mettermi in gioco?”.